Giusto tornare brevemente su Knock Knock. Non solo perché sembra confermare a nostro parere i progressi di Eli Roth, regista che oltretutto dimostra una certa coerenza nel continuare il proprio percorso entro i limiti (per il momento ben circoscritti) di un cinema di genere a costo relativamente ridotto (anche se il prossimo progetto annunciato dovrebbe essere il kolossal Meg, con protagonista un gigantesco squalo preistorico). Il secondo motivo è che la realizzazione di Knock Knock permette di scoprire (o riscoprire, per chi ha già avuto occasione di vederlo) un piccolo thriller degli anni Settanta mai uscito in Italia, Death Game (conosciuto anche col titolo alternativo The Seducers). A dirigerlo nel 1977 fu un regista e produttore dalla carriera breve, Peter S. Traynor (un altro film nello stesso anno, Evil Town, in cui risulta accreditato come co-regista il più celebre Curtis Hanson, e poco altro). Il suo nome compare anche nei titoli di testa di Knock Knock, sempre in veste di produttore (esecutivo, tra l'altro), insieme a quelli di Larry Spiegel, Colleen Camp e Sondra Locke (rispettivamente co-produttore e protagoniste del film del 1977). Ma nell'elenco dei produttori figurano praticamente tutti, compresi Keanu Reeves e Roth, quindi la cosa non significa granché. Curioso il fatto che non compaiano invece i nomi dei due sceneggiatori di Death Game, Anthony Overman e Michael Ronald Ross, nonostante Knock Knock sia costruito sulla falsariga dell'originale. Sono entrambi una sorta di variazione sul tema rape & ravenge, sottogenere che negli anni Settanta era piuttosto praticato, così come andavano per la maggiore un po' ovunque i film incentrati sul rapporto tra un uomo maturo e un'adolescente. Qua tuttavia sono le donne che aggrediscono l'uomo. Non a caso abbiamo scritto “variazione sul tema”: manca anche qualcos'altro, che non riveliamo.
Alcune differenze tra l'originale e il remake però sono sostanziali. L'inizio di Knock Knock è più elaborato e presenta un maggior numero di personaggi (Evan, il protagonista, e poi moglie, due bambini, ai quali si aggiunge l'amico e collaboratore della donna), insomma un clima da famiglia di artisti benestanti e felici (in Death Game invece ci sono solo marito e moglie). Presenta inoltre una serie di anticipazioni (ammiccamenti) la cui importanza si comprende solo nella parte finale. L'amico, ad esempio, si riferisce scherzosamente a una “festa segreta” da tenersi alla sera e anche i bambini, prima di partire, ricordano al padre di “mettere le foto della festa su Instagram”. Ecco, la presenza di computer, cellulari, ipad (con tanto di like su Facebook) rappresenta ovviamente un'altra differenza con Death Game. E anche qui, come in The Green Inferno, Eli Roth si diverte a distruggere dei prodotti high-tech (significherà qualcosa?). Ulteriori differenze riguardano il personaggio principale: in Death Game è un uomo d'affari con un braccio ingessato che resta solo il giorno del suo compleanno, in Knock Knock un architetto e il giorno è la festa del papà (che permette di elaborare un sottotesto relativo alla differenza di età tra Evan e le ragazze che aggiunge un tocco di perfidia al plot). I due film divergono inoltre in alcuni sviluppi narrativi, ma ci fermiamo qui per non incappare in ciò che oggi chiamano spoiler (una volta nel caso dei gialli si chiedeva di non raccontare il finale). Infine, va sottolineato che il modo di girare è completamente diverso. Traynor realizza un film allucinato, psichedelico, fotograficamente scuro negli interni, con un montaggio nervoso e maggiore attenzione ai dettagli. E una canzoncina sui titoli ai limiti del kitsch ma tutt'altro che malvagia. Roth è più luminoso, disinibito (anche nell'abbigliamento delle ragazze), per certi versi linguisticamente corrivo, ma qui sta il pregio maggiore di Knock Knock. Percorso da una vibrazione disincantata (vedi le scritte “l'arte non esiste” e “non è stato un sogno”). Consapevole, forse, di doversi confrontare (da film orgogliosamente di serie b) con tempi cinematografi ci (e non solo) di snervante ottusità.
a cura di Roberto Frini