The Mist di Frank Darabont


Bridgton, una tranquilla cittadina del Maine, viene avvolta improvvisamente da una fitta e densa nebbia che nasconde insidie letali.
Un gruppo di persone si rifugia in un supermercato, circondate dall’ignoto, un ignoto minaccioso che non lascia scampo ne speranze.
Da dove viene la misteriosa nebbia? Quale sarà il ruolo di Dave Drayton (Thomas Jane), e il destino della moglie e del figlioletto Billy?

The Mist è probabilmente una delle più belle sorprese del 2007: se si pensa infatti che negli ultimi anni le produzioni cinematografiche di genere horror abbiamo  soltanto puntato a “manetta” (con risultati spesso assai scadenti) soprattutto sui remake, non si può che rimanere favorevolmente colpiti da questa riuscitissima trasposizione tratta da un racconto lungo di Stephen King.
Ma del resto Frank Darabont, un cineasta profondamente innamorato di cinema, vuol dire anche garanzia certa, basti pensare alle già sue brillanti trasposizioni de Il miglio verde e Le ali della libertà sempre dello stesso King.
The Mist è una pellicola estremamente coinvolgente, ottimamente diretta con pochissime sbavature e un finale a dir poco sconcertante.
  
Anche in questo caso Darabont punta soprattutto alla caratterizzazione e allo spessore dei personaggi avvalendosi di un cast eccezionale dove fra tutti spiccano Thomas Jane (The Punisher) nel ruolo di David Drayton, così umano nel suo spaurito coraggio misto a debolezze, esitazioni e conflittualità e la straordinaria Marcia Gay Hardin, nella parte di Mrs Carmody che ne da un’interpretazione raggelante.
Con un budget di soli 18 milioni di dollari Darabont fa nuovamente centro realizzando un film inquietante che omaggia volutamente pellicole di genere come Aliens (tra tutte, la sequenza della farmacia), La cosa (all’inizio del film abbiamo anche un’inquadratura del manifesto) o La guerra dei mondi per le atmosfere apocalittiche evocate. 
  
Nel film la nebbia non è una nebbia alla The Fog, ma contiene qualcosa di molto più, per così dire, “corporeo”, anche se la sua mutevolezza la rende sfuggevole alla comprensione, laddove già la vista ha perso tutte le sue funzionalità.
Per evitare il finale aperto con cui si chiude il racconto lungo di King, come chiunque abbia letto “La nebbia” sa bene, Darabont ne confeziona uno tutto suo, ottenendo perfino il benestare dello scrittore. Aver mutato l’epilogo è stata sicuramente un'operazione intelligente, dal momento che risulta originale e cinico al punto giusto, e qui ci fermiamo per non svelare oltre.
Buone anche le musiche essenziali di Mark Isham e impressionanti gli effetti speciali targati Gregory Nicotero e Howard Berger, e con questo abbiamo detto tutto.
Per chi ama il genere, assolutamente da non perdere.
 
Giudizio: ottimo. 

Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris


La famiglia Hoover (il padre Richard, la madre Sheryl e suo fratello Frank, i figli Olive e Dwayne e il nonno) si mette in viaggio su un vecchio pulmino VolksWagen giallo da Albuquerque verso Redondo Beach per coronare il sogno della piccola di casa, Olive: quello di essere eletta reginetta di bellezza al concorso Little Miss Sunshine. Non sarà un viaggio facile per i dissidi interni della famiglia, decisamente singolare. Riusciranno i nostri ad arrivare al concorso in tempo?
Little Miss Sunshine è una commedia road-movie leggera e divertente costellata al tempo stesso da momenti drammatici con toni a volte amari e situazioni acide, dirette e senza mezzi termini. Per intenderci: una commedia che non fa molto ridere, ma piuttosto molto riflettere.
Dicevamo commedia perchè in tale registro è recitata  la pellicola, dato che in tale categoria si classificano i film che hanno in essi personaggi che ricoprono delle specifiche ben definite. Sheryl una madre un pò nevrotica ed apprensiva, Richard un padre che cerca di seguire il suo credo "io sono un vincente e non un perdente", lo zio Frank, fratello di Sheryl, uno studioso di Proust che tenta il suicidio perchè il ragazzo di cui si è innamorato ha deciso di stare con un altro.
Dwayne adolescente ribelle che fa voto di silenzio fino a quando non ha realizzato il suo sogno, entrare in aereonautica, Olive una ragazzina un pò cicciottella che vuol vincere un concorso di bellezza e non ultimo il nonno cacciato da una casa di cura per tossicodipendenza.
Una famiglia come poche si potrebbe dire. Di certo molto singolare... Una famiglia poco unita ma che deciderà di affrontare un viagigo in California per permettere alla piccola Olive di partecipare ad un concorso di belezza.
Nel corso del viaggio cadranno molti muri, il dialogo sarà propenso e alcune situazioni porteranno ad attente riflessioni sulla vita stessa. Un film che dietro alla sua ironia nasconde ben altro. Ben girato e ben diretto con un cast all'altezza della situazione.
  
I due registi (coniugi) Jonathan Dayton e Valerie Faris - realizzatori di spot pubblicitari - dipingono abilmente una famiglia americana con gioie e dolori, con speranze e delusioni: individui infelici e diversi che, nonostante tutto, tentano di inseguire l'American Way Of Life, un Sogno Americano che però può trasformarsi in un Incubo per i perdenti.
Little Miss Sunshine nel 2006 oltrepassò i 42 milioni di dollari di incasso negli Stati Uniti, dove il film uscì in sole 7 copie. Il film ha avuto un successo travolgente al Sundance Film Festival, dove la proiezione si è conclusa con una standing ovation: un successo davvero meritato.
Consigliato vivamente a chi apprezza il cinema d'autore.
 
Giudizio: ottimo. 

Addio a J.G. Ballard


Scomparso J.G. Ballard, padre di Crash e del cyberpunk. Aveva 78 anni. I suoi romanzi hanno ispirato diversi film, tra cui L'impero del Sole e il capolavoro Crash di Conenberg.
 
È morto all'età di 78 anni lo scrittore James Graham Ballard, famoso per alcune pietre miliari dalla letteratura fantascientifica.
Nato a Shanghai da genitori britannici, durante la Seconda Guerra Mondiale Ballard venne internato con la famiglia nel campo di prigionia giapponese di Lunghua. Questa esperienza verrà ripresa nel romanzo L'impero del sole (Empire of the Sun), da cui il regista Steven Spielberg ha tratto nel 1987 un film omonimo (la cui sceneggiatura è stata scritta dal drammaturgo inglese Tom Stoppard). Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, Ballard si trasferì in Gran Bretagna, dove iniziò gli studi di medicina, che non portò mai a termine. Dopo una serie di lavori occasionali (come venditore di enciclopedie porta a porta) si spostò in Canada con la Royal Air Force e qui scoprì la fantascienza.
Congedatosi dalla RAF e tornato in patria, Ballard inizierà a scrivere racconti. Il primo romanzo che gli darà la notorietà ma che in seguito rinnegherà è nel 1962 The Wind From NowherE (Vento dal nulla) che apre una tetralogia di genere catastrofico. Gli altri tre libri sono The Drowned World (Il mondo sommerso), The Burning World (Terra bruciata) e The Crystal World (Foresta di cristallo) che di fatto sono basate sui quattro elementi aristotelici aria, acqua, terra e fuoco, più il quinto elemento, il tempo, che domina Foresta di cristallo. Nel 1970 viene pubblicato The Atrocity Exhibition (La mostra delle atrocità), considerato il suo capolavoro che si articola in quindici racconti, legati da un'ossessione maniacale per la guerra del Vietnam, la psicopatologia, la pornografia, il potere dei media, le vittime di incidenti stradali e le icone del sogno americano. Queste ultime tutte rigorosamente morte. Da notare che in questo libro si profetizza l'elezione a presidente degli USA di Ronald Reagan. Di tre anni dopo è Crash, in cui viene ripreso il tema della perversione per le vittime di incidenti stradali e la fusione di carne e macchine. Nel 1996, è stato tratto il film omonimo per la regia di David Cronenberg.
Dalla prima metà degli anni ottanta Ballard si allontonò sempre più dalla fantascienza per quel che riguarda la sua produzione romanzesca, anche se continuò a scrivere racconti fantascientifici o fantastici fino alla metà degli anni Novanta. Nel marzo del 2008 è stata pubblicata l'autobiografia di Ballard, intitolata Miracles of Life (I miracoli della vita), nella quale l'autore rivelava di essere affetto da una malattia terminale.
 

Il Volto di Dio di Nicola Raffaetà


Una valigetta misteriosa, contenente il cosiddetto “Volto di Dio”, è contesa fra diversi personaggi, in particolare il signor Eltsèn, capo dei servizi segreti (che assolda due gangster senza pietà nel tentativo di recuperarla) e tre terroristi alquanto scalcagnati, vicini al proprietario della valigetta.
Inseguimenti, complotti, omicidi e un finale a sorpresa sono alla base di questo mediometraggio per la regia di Nicola Raffaetà.

Una produzione simpatica. Non mi sento di dire molto di più. La storia è gradevole, ma purtroppo poco originale, con una costante e fastidiosa sensazione di “già visto, già sentito” che emerge prepotentemente. Una valigetta misteriosa; il cattivone simil camorrista che assolda due sicari veramente troppo simili alla coppia Travolta/Jackson di Pulp Fiction (compresi dialoghi surreali); i tre terroristi terribili, ma pasticcioni che strizzano l’occhio ai cattivi dei fratelli Cohen un po’ clowneschi nelle loro incursioni malefiche. Per non parlare della giovane e bella vendicatrice, erede in tutto e per tutto della fatale Nikita (Luc Besson, 1990).
La recitazione è alquanto scadente, eccezion fatta per i tre terroristi che sfoderano invece un talento comico che colpisce per l’assoluta naturalezza e disinvoltura.
 
Voto: appena sufficiente.
 
Regia: Nicola Raffaetà
Interpreti: Alessandro Silicani, Alessio Lucchesi, Emanuele Betti, Roberto Panichi.
Sceneggiatura: Nicola Raffaetà
Montaggio: Antonio Tosi
Fotografia: Chiara Pontuali
Anno e durata: Italia, 2004, col., 31’ e 09''
Genere: Poliziesco
 
Nicola Raffaetà
E’ nato a Camaiore (Lucca) nel 1980. Prima di approdare nel mondo del cinema ha suonato per dieci anni in un gruppo rock-blues, i “Guernica”, famoso in Versilia. Studia all’Università di Pisa cinema, frequentando il corso “CMT” Cinema, musica, teatro. FILMOGRAFIA Fiction 2001 - “Ladri: come rapinare la moglie” 2002- “Imago” 2003- “Il volto di Dio” 2004- “Cine Fills” 2005- “Le monete del tradimento” Documentari 2002-“Carnevale”

a cura di Giorgio Mazzola

La promessa dell’assassino di David Cronenberg

Cronenberg deve essersi assai divertito ad insinuare nello splendente Aragorn l’esistenza di un lato oscuro, già in A History of violence lo spettatore si trovava di fronte un Viggo Mortensen che non riconosceva, forse criminale o forse no, che alla fine risultava non soltanto un killer, ma anche più interessante, intanto perché meno splendente, poi anche perché di gente senza macchia non è che ce ne sia poi tanta in giro di questi tempi. Viggo aveva ceduto al lato oscuro e si era pure divertito a farlo. In questo nuovo attesissimo lavoro di Cronenberg, l’attore non solo è un mafioso dall'inizio della storia, ma mostra dei tatuaggi che collimano poco con l’idea dell’eroe senza macchia, non ha più armature né cotte di maglia, e non si batte per un regno o per un anello, ma per la propria vita, senza nessuna armatura, anzi nudo in una sauna con due tipacci che neanche gli orchi di Jackson riescono ad eguagliare in fatto di pericolosità. Il corpo che egli espone allo sguardo stranito dello spettatore, che di mafia russa a Londra sa di certo pochissimo, è ricoperto di tatuaggi che raccontano la sua storia, e questa di storia non l’ha scritta di certo Tolkien.
Ma procediamo per ordine: l’infermiera Anna, una Naomi Watts che fatica un po’ a smettere di preoccuparsi, incappa in un mistero che coinvolge una ragazza giovanissima morta di parto, un neonato ed un ristorante di proprietà di gente molto pericolosa.
Si mette sulle tracce di Kirill, un Vincent Cassel che meglio sarebbe stato evitare, talmente è stronzo e pure un po’ sopra le righe, e scopre cose che voi umani non potreste immaginare. Viggo/Nikolai è l’autista del figlio del capo, sfoggia uno sguardo d’acciaio e una recitazione da antologia, e riesce incredibilmente ad essere gelido ed umano nella stessa inquadratura, senza neanche battere ciglio. La vecchia ossessione per il corpo del geniale Cronenberg qui striscia sottile all’interno della storia e silenziosamente si impossessa delle inquadrature più potenti, a cominciare dal primo omicidio, che parrebbe un’ispirazione da vecchi gangster movie, ma invece nasconde il senso del taglio di una gola, mettere a tacere chi parla troppo. Poi abbiamo la scena della prova di virilità di Nikolai, richiesta da un Kirill che sembra sottintendere un interesse di natura omosessuale non dichiarato, anzi negato con violenza, nelle attività sessuali del suo sottoposto. Scena, questa, che oltre a passare attraverso l’esposizione di corpi maschili e femminili, rivela tutta la stanca accettazione da parte di Nikolai dei rituali all’interno di un’associazione tribale quale la mafia, russa o meno conta poco.
 
E’ poi la volta della già famosa scena della sauna, e su questa sequenza occorre spendere qualche parola, in primo luogo perchè l’abilità registica riesce nel difficile compito di mostrare una lotta primordiale tra corpi di cui uno nudo e due vestiti di tutto punto, senza irritare la censura e senza sfiorarne neppure da lontano il ridicolo. Poi c’è da dire che il continuo mostrare senza un attimo di tregua coltelli che affondano nella carne di tutti, anche in punti delicatissimi come un occhio, rimanda alla passione per lo scardinamento dei corpi che Cronenberg si porta dietro da molto tempo, e che tutti gli amanti del suo cinema ormai si aspettano da ogni sua pellicola. In ultimo è difficile non notare il sottotesto che passa un’informazione vitale come quella che il passato non solo non si cancella, ma ti rende riconoscibile attraverso i segni che lascia sul tuo corpo, senza neanche dire una parola. Il corpo in Cronenberg, e in questo caso anche in Nikolai, parla da solo e da solo ti condanna se tale è il caso, senza troppi complimenti. Così come è ancora una volta la debolezza della carne del piccolo grande figlio del capo, che non solo lo caccia nei guai, ma ne costringe il padre, boss e demiurgo di tutto quello che accade nella storia, a far salire di grado l’autista all’interno dell’organizzazione per controllare meglio gli eccessi di suo figlio. Ed infine il corpo di Anna, che aveva abortito un feto in precedenza, segnerà in silenzio il destino dello sfortunato bambino senza nome, che verrà ad insinuarsi in quel posto vacante nel cuore di lei, e che la spingerà a cercare una storia così, solo per placare il dolore di un’ingiustizia mai neanche raccontata.
 
Cronenberg riesce in questo modo ancora una volta a coniugare una storia avvincente con una regia impeccabile, e attraverso il solo magistrale uso degli attori, che paiono tutti talmente nella parte da suggerire una precedente incarnazione come mafiosi russi trapiantati, o infermiere sfortunate, ci regala un convincentissimo aggiornamento del thriller di ambientazione mafiosa, senza mai neanche citare alla lontana i numerosi illustri precedenti, e insinuando nello spettatore l’idea che la raggiunta maturità del regista di Toronto non soltanto sia arrivata da tempo senza clamori né fanfare, ma che non possa esser messa in discussione neanche stavolta e, se è per questo, in nessun’altro dei suoi riuscitissimi ultimi film.

a cura di Anna Maria Pelella
Fonte: Offscreen

Doomsday di Neil Marshall


Terzo lungometraggio per il promettente Neil Marshall ("Dog Soldiers", "The Descent") che dopo due horror, passa alla sci-fi di azione. Più che sci-fi, direi che Marhall confeziona il suo tributo a un genere specifico: il c.d. "post atomico". "Doomsday", infatti, sintetizza le varie sfaccettature di questo sottogenere proponendo uno script che ripropone – pari pari - gli elementi di forza di "1997 Fuga da New York" (area, isolata dalla civiltà, infestata da teppisti; protagonista spigoloso che viene incaricato di penetrare nell’area, per porre rimedio a un problema che minaccia l’esterno; epilogo beffardo, in cui il protagonista si prende gioco dei suoi superiori) miscelandoli con espliciti omaggi a "Mad Max II" (scena dell’inseguimento finale), "Mad Max III" (esplicito ritorno al medioevo, con combattimenti in arena), "Fuga dal Bronx" (militari con elmetti fracassati dalle mazze dei teppisti), "I Nuovi Barbari" e "I Guerrieri della Notte" (per il folkloristico ed eccessivo look dei personaggi punk) e, infine, "28 Giorni Dopo" (idea del virus che falcia l’intera popolazione, con successiva presenza di strade deserte e città disabitate) e "La Terra dei Morti Viventi" (autoblindati messi sotto assedio). Marshall, inoltre, condisce la sua sceneggiatura con un umorismo posticcio (a tratti irritante) con battute che ricordano film come "L’Ultimo Boyscout" (su tutte l’espressione: "toccami di nuovo e ti ammazzo"). Non manca qualche buco narrativo e qualche passaggio farraginoso (in linea di massima concentrati nell’ultimissima parte) e un paio di scene grottesche che stonano con tutto il resto (vedi la fine che fa il capo dei punk). Per i curiosi, si segnala la presenza di due personaggi i cui nomi sono Carpenter e Miller (rispettivamente i registi di "1997 Fuga da New York" e della trilogia "Mad Max").
  
Al di là di questi aspetti, il film si segnala per un ritmo serrato e per un indubbio gusto per i B-movies di un tempo. Come sua abitudine, l’autore inglese non lesina in sparatorie e gore (decapitazioni, amputazioni, sormontamenti e scene cannibaliche si susseguono una dietro l’altra senza lasciare niente all’immaginazione dello spettatore).
Interpretazioni sufficienti, con una Rhona Mitra ("Highwaymen", "L’Uomo senza ombra") che, promossa al ruolo di protagonista, se la cava prendendo come modello la Kate Beckinsale di "Underworld" nonché il buon vecchio Iena Plisken (con tanto di benda su un occhio). Piccolo ruolo anche per l’immenso Andy McDowell ("Arancia Meccanica", "Evilenko", "Firestarter II"), qui un po’ sprecato. 
  
Ottima la messa in scena con un mix di computer grafica (per fortuna si evitano gli abusi e si da spazio agli stunt-man come si faceva un tempo) e nebbie artificiali ricreate sul set. Very good la fotografia, il make up (bella la scena "baviana" in cui un uomo viene dato alle fiamme) e le scenografie (un po’ "fumettistiche").
Colonna sonora a tratti "carpentariana". Per nostalgici (come il sottoscritto).
 
Giudizio: buono.

a cura di Matteo Mancini 

Archivio GHoST (immagini) - BodyPainting Vol.1

BodyPainting Vol.1 (raccolta fotografica sull'arte del bodypainting) 
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