La singolare professione di Dom Cobb è quella di carpire e impossessarsi dei segreti riposti nelle menti delle persone. L’uomo d’affari giapponese Saito propone a Cobb un accordo: lui e il suo team di “estrattori di idee dall’onirico” dovranno compiere un innesto, ovvero un processo opposto alla solita procedura. Questo innesto (l’”Inception” che dà il nome al film) consiste nell’inculcare un’idea nel subconscio di Robert Fischer, il figlio del rivale in affari di Saito.: alla morte del padre, in fatti, Robert dovrà essere convinto a dividere e a smembrare l’impero economico ricevuto in eredità. In cambio, grazie alle influenze del giapponese, Cobb potrà finalmente tornare dai suoi figli che dovete abbandonare dopo essere stato accusato dell’omicidio della moglie.
...
Regia di Chris Nolan (quello dei Batman con raucedine), così come il soggetto e la sceneggiatura. Sceneggiatura assolutamente infallibile, monolitica, perfettamente sincronizzata, come il mega-risveglio del finale. Bel film, storia accattivante, ritmo sostenuto, effetti speciali magnifici… però finisce lì. Si ritorna nella schiera dei già visto, già sentito… Magari pretendo troppo, magari con gli anni il mio livello di sopportazione si è notevolmente abbassato… ma all’uscita dal cinema stavo già pensando ai fatti miei e non mi era rimasto niente di ciò che avevo appena visto. Anche perché da una parte e dall’altra sento gente che acclama questa pellicola come una delle migliori degli ultimi dieci anni; altri che la criticano aspramente mettendo in luce tutte le cose che non vanno. Ecco, io non riesco a fare nessuna delle due cose: semplicemente me ne sto da solo nella mia indifferenza. Perché Inception è bello, ma sembra che tutti siano immediatamente pronti a passare sopra i parallelismi troppo grandi con i vari Matrix, o Al di là dei sogni (la cui storia d’amore richiama tantissimo quella di Cobb e sua moglie – alla faccia di chi ci trova un sacco di spunti originali); ma soprattutto con il papà di questi film con svarioni mentali a livello avanzato: Atto di forza (Total Recall, 1990), con i sogni di qualcuno in cui qualcun altro entra e spiega al primo che è meglio se si sveglia perché sennò finisce male, ma poi subentra il dubbio, perché è tutto così reale che svegliarsi potrebbe voler dire morire e… basta. Basta, vi prego. E’ qui che mi sorge spontanea una domanda: ma se non utilizziamo qui il 3D, dov’è palese che a livello contenutistico le idee siano trite e ritrite, dove vogliamo utilizzarlo? Personalmente non amo questa novità, non sto pubblicizzandola. Ma visto che la maggioranza di quelli che si entusiasmano vedendo Inception, si appassionano alla grande “figata” in sé che esso rappresenta, allora accontentiamoli come si deve elargendo loro quasi 3 ore di orgasmo visivo amplificato dall’ausilio dei mitici occhialetti..
E per piacere: non facciamo più doppiare Ken Watanabe da Haruhiko Yamanouchi: è vero, è assolutamente realistico sentire un giapponese che parla italiano. Ma il doppiaggio non pretende di essere specchio (in questo caso sonoro) della realtà: l’importante è interpretarla a dovere.
Insomma, per non rischiare sempre di fare il noioso trombone che non sopporta nulla, non dirò: “Inception? NO!”, ma: “Inception? Bah…”.
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Voto: buono.
a cura di Giorgio Mazzola
... ... SCHEDA TECNICA
Titolo originale: Inception
Genere: fantascienza, thriller
Regia: Christopher Nolan
Anno: 2010
Paese: USA/UK
Durata: 148 min
Colore: colore
Produttori: Emma Thomas, Christopher Nolan
Produttori esecutivi: Chris Brigham, Thomas Tull
Casa di produzione: Syncopy, Warner Bros. Pictures Group
Distribuzione: Warner Bros
Soggetto: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Christopher Nolan
Fotografia: Wally Pfister
Montaggio: Lee Smith
Effetti speciali: Chris Corbould
Musiche: Hans Zimmer
Scenografia: Guy Hendrix Dyas
Costumi: Jeffrey Kurland
Interpreti e personaggi: Leonardo DiCaprio (Dominic "Dom" Cobb), Joseph Gordon-Levitt (Arthur), Ellen Page (Arianna), Tom Hardy (Eames), Ken Watanabe (Mr. Saito), Dileep Rao (Yusuf), Simone D'Andrea (Robert Michael Fischer), Mario Cordova (Peter Browning)
Johnny Marco è una star hollywoodiana che alloggia nel Chateau
Marmont Hotel. Passa le sue giornate partecipando a feste, ubriacandosi,
circondandosi di donne disponibili e girando a zonzo con la sua Ferrari
per le strade di Los Angeles. Una vita da sogno, ma assolutamente
vuota. Un giorno però riceve la visita della figlia adolescente Cleo...
Con Somewhere, il suo quarto lungometraggio, la Coppola si è
aggiudicata il Leone d’Oro al Festival di Venezia 2010. Un risultato
prevedibile (tanta l’attesa a quattro anni di distanza da Marie Antoinette),
ma forse non pienamente condivisibile. Da amante assoluto del suo stile
di regia rimango un po’ perplesso nel vedere che in realtà, già al
quarto film, dopo circa (solo) 10 anni di attività ad alti livelli, la
talentuosa regista stia già facendo i conti con un autocitazionismo ai
limiti della ripetitività (speriamo che Tim Burton non sia contagioso).
Nulla da dire sulla tipica fissità dei suoi piani sequenza; sulla
riduzione all’osso delle performances attoriali; sugli impedimenti
fisici dei protagonisti che esternano un’incapacità cronica di
relazionarsi pienamente col mondo; niente da dire sulle varie
riflessioni autobiografiche anche e (come sempre) soprattutto in chiave
musicale: (ri) benvengano, quindi, anche gli Strokes che riciclano una
versione “tranquilla” di I’ll try anything once (peraltro bellissima), assolutamente perfetta per l’immagine di padre e figlia in piscina.
Sì, perché Somewhere
è un bel film, a tratti toccante e molto ironico; lento, ma solo perché
non può essere altrimenti. Eppure non lascia il segno. Piace, ma non
colpisce. Tutto è pervaso da un’orrenda sensazione di già visto: un
sapore non nuovo.
Mi pare ovvio che, osservando gli stanchi movimenti di Stephen Dorff, venga in mente il depresso Bill Murray di Lost In Translation. Anzi, devo dire, purtroppo, che questo Somewhere
mi sembra tanto il fratello minore del capolavoro che è valso l’Oscar
alla bella Sofia ormai sette anni fa. I parallelismi sono evidenti: una
riflessione impietosa sull'attore e sulla sua “condizione” (costretto a
recitare per uno spot di Whisky il primo; costretto a stare con un calco
sul viso per 40 minuti il secondo); binomio tra ragazza giovane e
attore vecchio (qui Johnny è vecchio dentro – ma la maschera da vecchio
che gli fanno indossare esplicita il tutto magistralmente); fatidico
viaggio all'estero con ovvia ospitata in trasmissione televisiva di
paese sottosviluppato in fatto di entertainment (il Johnny Carson
giapponese e i “Telegatti” – presa in giro del nostro paese? Non credo);
parentesi famigliare davanti alla TV della stanza d’albergo di film che
non si capiscono (La dolce vita in Lost in Translation; Friends doppiato in italiano in Somewhere);
incapacità fisica che esterna un blocco interiore del protagonista
(essere un gigante in Giappone per Murray; avere il braccio rotto e
addormentarsi di schianto durante l’amplesso per Dorff). La famosa
Porsche che Murray doveva comprarsi per la crisi di mezza età diventa
una ferrari in Somewhere (di nuovo Johnny prematuramente
vecchio). Mi fermo qui. Ma solo perché amo questa regista e apprezzo i
suoi film. E apprezzo onestamente anche quest’ultimo, una magistrale e
sublime rappresentazione degli inceppamenti della vita: ancora il
braccio di Johnny che si rompe; vorrebbe poter dire a un giovane attore
che lui ha studiato recitazione, ma non è così, perché nel mondo dello
spettacolo ci è capitato per caso; la fuoriserie costretta dai limiti di
velocità cittadini (e che a un certo punto si rompe); il rapporto con
la figlia che forse ha una svolta, ma forse no; le colossali dormite nei
momenti in cui l’eccitazione dovrebbe irrompere;.la chitarra scordata
di Teddy Bear…
Apprezzo e rispetto questo film, dicevo: anche se in realtà si riduce all’insieme delle parti noiose di Lost in Translation. Cosa manca in Somewhere, quindi? Forse proprio Bill Murray…
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Vincitore del David di Donatello 2008 come miglior film dell'Unione Europea e del Nastro d'argento 2008 come miglior film europeo, Irina Palm (da noi con il titolo di Irina Palm - Il talento di una donna inglese) del cineasta Sam Garbarsi è un film particolarmente commovente e pieno d'umanità che affronta temi scabrosi con pudore e ironia sapientemente dosata.
La storia è ambientata a Londra. Maggie (una straordinaria Marianne Faithfull) è una signora di mezza età con un figlio che le ha già dato un nipotino. Quest'ultimo però è malato di una rara malattia e per curarlo bisogna portarlo, a spese della famiglia, in Australia.
Per racimolare soldi, Maggie all'inizio cerca un lavoro; ma data la sua età e l'assenza di esperienza non lo trova, finché non legge un annuncio relativo a un lavoro in cui si cercano delle "hostess" (termine eufemistico per "prostituta"). Maggie, senza dire nulla a figlio, nuora ed amiche, entra così nel giro, lavorando in silenzio dietro ad un glory hole, e riesce a diventare in poco tempo la professionista più richiesta, assumendo il nome d'arte di Irina Palm.
Questo le attira l'astio della giovane collega Luisa, che viene licenziata, e la curiosità del proprietario del locale, Miki (un bravissimo Miki Majnolovic), con il quale, tra le iniziali diffidenze reciproche, stringe un rapporto di amicizia che sfocerà nell'amore.
Sorretto da un’abile sceneggiatura che si serve di ottimi attori convincenti (in primis Marianne Faithfull e Miki Majnolovic); in Irina Palm si sorride e ci si commuove. Una prova registica riuscitissima che dimostra come si può fare un film natalizio (la vicenda è narrata a dicembre) e ricco di umanità pur affrontando un percorso scabroso. Da non perdere.
Daigo Kobayashi è un giovane violoncellista di Tokyo che rimane
disoccupato dopo che la piccola orchestra nella quale lavora è costretta
a chiudere per fallimento. Non sentendosi all’altezza di provare ad
entrare in un’altra compagnia più prestigiosa, decide con grande
rammarico di vendere il suo violoncello e di tornare con la moglie al
suo paesello d’origine in mezzo alle risaie per ricominciare da zero con
un nuovo lavoro. Mentre cerca sul giornale tra i vari annunci si
imbatte in quello dell’agenzia NK che titola: “Assistiamo coloro che
partono per viaggi” e che ricerca personale anche senza esperienza.
Così, convinto si tratti ovviamente di un’agenzia di viaggi, telefona
per fissare il colloquio. Parlando con lo strampalato titolare, il
signor Sasaki, scopre però che l’annuncio ha un errore di ortografia: la
parola giusta non è “viaggi”, bensì “il viaggio”, ovvero l’ultima
dipartita: la NK infatti è un’agenzia di tanatoesteti, ovvero di
professionisti che curano l’aspetto dei defunti per presentarli l’ultima
volta alla famiglia prima della cremazione. Dopo un iniziale
tentennamento il giovane Daigo decide di provare il nuovo lavoro,
convinto anche dal sostanzioso anticipo offertogli dal suo nuovo capo.
Sebbene una volta tornato a casa non sappia come dirlo alla moglie,
inizia a pieno ritmo questa nuova esperienza lavorativa…
Basato sull’autobiografia di Aoki Shinmon (Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician), Departures (Okuribito)
è il vincitore dell’Oscar come miglior film in lingua straniera del
2009 e del Montreal World Film Festival 2008. Un film la cui
preparazione è durata ben 10 anni, con il regista Yojiro Takita che
assistette a numerose cerimonie funebri -per comprenderne appieno la
giusta atmosfera da ricreare - e con l’attore protagonista Masahiro
Motoki che dovette imparare davvero il rito di preparazione dei defunti,
per poterlo eseguire alla perfezione durante le riprese.
Takita dirige un film dai ritmi lenti e cadenzati, senza quindi
uscire troppo dagli schemi delle produzioni nipponiche di sempre, ma che
riesce a commuovere nel profondo grazie anche all’aiuto magistrale
della colonna sonora del buon Joe Hisahishi (già autore delle musiche di
gran parte dei film di Kitano e Miyazaki) il quale, con la sua innata
capacità di saper interpretare in chiave sonora immagini e vicende con
temi accattivanti e orecchiabili, riesce a rendere struggente una
pellicola già gradevole e molto ironica. Un film delicato che però non
scioglie mai il nodo che si forma in gola già dai primi minuti della
vicenda e che continua a tenere vivo il sentimento di malinconia
pressante che si esplicita appieno grazie alle note del violoncello che
accompagna le mosse dei protagonisti. Malinconia, non tristezza,
appunto: lo spirito nipponico di questa pellicola è tutto qui,
nell’esaltazione a tratti pragmatica della vita (Sasaki e le sue qualità
culinarie – “Se vuoi vivere devi mangiare; e se devi mangiare, mangia
bene”; la moglie di Daigo che rimane incinta) e della percezione della
morte come passaggio, come attraversamento di un cancello immaginario
che si vive con dignità e con disarmante tranquillità (anche se le
lacrime ovviamente abbondano anche qui). Qualche volta si cade un po’
nella retorica, ma nel complesso il film abbraccia lo spettatore con la
sua calda poesia rassicurante e con un profondo senso di totale
bellezza.
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Questo romanzo di Calvino si affianca a Il
visconte dimezzato e a Il barone rampante creando una trilogia di
mitiche figure, quasi un albero genealogico di antenati dell’uomo
moderno. Carlo Magno passa in rassegna le sue truppe e tra fango e
sangue, solo un cavaliere sembra quasi irreale: armatura bianca, lucida e
pulita e portamento regale.
Si tratta di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez.
E’ nobile d’animo, pronto a raddrizzare torti, impeccabile e incline alla perfezione come nessun altro.
Ma
non esiste! Tutta la sua consistenza è la sua armatura vuota; è
l’armatura stessa che trova la forza di essere cosciente attraverso un
incredibile sforzo di volontà. Così vengono narrate le avventure del
cavaliere inesistente Agilulfo in un medioevo fantastico, dai risvolti
ironici e fiabeschi. Egli suscita sentimenti contrastanti: invidia nei
sottoposti e colleghi ai quali dispensa ordini e critiche; ammirazione
in giovani come Rambaldo di Rossiglione, intenzionato a vendicare la
morte del padre e che gli chiede consigli sull'arte del combattimento;
amore in donne come Bradamante, coraggiosa amazzone stanca di tutti gli
uomini esistenti e di cui si innamora lo stesso Rambaldo.
Personaggio chiave del racconto e scudiero di Agilulfo è Gurdulù.
Questi
è assolutamente all'opposto del cavaliere inesistente. Appare infatti
come un pazzo con il quale è quasi impossibile comunicare, cerca di
immedesimarsi in ogni forma di vita che incontra e non ha alcuna
coscienza di sé. Egli esiste, ma non sa di esserci al contrario di
Agilulfo che non esiste, ma sa di esserci.
Questo racconto è uno dei capisaldi della letteratura del novecento.
Rappresenta
la solitudine dell’uomo; evidenzia il vuoto di umanità che pervade il
mondo che ci circonda; racconta dei rapporti tra essere e sentire
attraverso una narrazione fantastica, viva, geniale e per certi versi
magica.
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Prima o poi succede un po' a tutti... quell'impulso irresistibile che ti cresce dentro, la voglia di voler rendere omaggio a qualcosa che hai amato e il gioco è fatto, grazie a Internet.
Inutile nasconderlo, AmigaGroup nasce principalmente come doveroso tributo a quel piccolo gioiello di casa Commodore che in tanti hanno posseduto e ammirato nei favolosi anni '80.
I computer Amiga segnarono una passo indelebile nel campo dell'informatica, sia a livello amatoriale che professionale; in particolare gli Amiga furono i primi computer a introdurre il vero concetto di multimedialità e solo per questo, insieme ad altre innumerevoli caratteristiche, in un certo senso gli siamo debitori.
Il progetto AmigaGroup nasce anche da un forte legame saldamente radicato: con questo spazio per la prima volta esponiamo alla luce del pubblico oltre venti anni di passione tuttora attiva, tra collezioni di sofware, giochi, manuali, riviste, esperienze...
Una stupenda avventura vissuta tra sofferenze, rimpianti e tante, tantissime soddisfazioni.
Amiga Group è un progetto ideato mantenuto e prodotto da Club GHoST. Per collaborazioni, scambio link/banner, segnalazioni errori e quant'altro, contattare la nostra redazione da qui: VAI...