Massimo è un giovane architetto di successo. Ha una casa, una bella moglie che fa la scrittrice e la vita sembra proprio andargli a gonfie vele. Un giorno, mentre si sta recando a piedi da un cantiere all'altro, viene investito da un autista distratto. Lo ritroviamo poco dopo, sul letto di un ospedale, assistito dalle amorevoli cure della moglie la quale, per non fargli pesare l’immobilità e la noia tipiche dei ricoveri ospedalieri, gli propone di leggere in anteprima le bozze del suo ultimo libro, intitolato “Gli scacchi della vita”. Il libro, come lei stessa afferma, parla di «una vita decisa da una partita a scacchi» e Massimo sembra incuriosito, sebbene la trama gli ricordi qualcosa. Verso sera però, l’uomo entra improvvisamente in un coma profondo, lasciando la povera moglie impotente e affranta. Lo ritroviamo poco dopo in un luogo/non luogo, una sorta di gigantesco capannone sperduto nella campagna urbanizzata. Ad attenderlo al suo interno c’è un singolare personaggio completamente vestito di bianco, seduto di fronte a una scacchiera, che lo invita a giocare insieme a lui. Sta sognando? È nell’aldilà? Date le circostanze e l’assoluta mancanza di riferimenti, Massimo non può far altro che accontentare il curioso individuo e giocare, sperando di vincere una partita che può valere il suo risveglio. Ha inizio così un affascinante viaggio all'indietro, nel quale il nostro protagonista evocherà episodi controversi della sua vita trovandosi più volte a lottare per il suo posto nel mondo.
Dopo il thriller Week end tra amici del 2013, Stefano Simone torna dietro la cinepresa, dirigendo un lungometraggio tratto da un racconto di Gordiano Lupi. Dopo il fortunato Una vita nel mistero del 2010, il regista di Manfredonia si tuffa nuovamente nel mondo metafisico, mettendo in scena una suggestiva vicenda sospesa tra il mondo reale e l’aldilà, strizzando dichiaratamente l’occhio al genio di Ingmar Bergman.
A 29 anni Stefano Simone è un regista che ha già alle spalle una carriera di tutto rispetto e personalmente posso vantarmi di aver seguito la sua crescita professionale e stilistica passo dopo passo, fin dai tempi di Kenneth (2008), il primo suo film di cui scrissi. Simone è indubbiamente cresciuto, maturato: dalle riprese dei suoi primi cortometraggi, fatte di inquadrature taglienti unite tra loro da un montaggio ruvido ed essenziale, sembra ormai essere passato a una tecnica più consapevole e a una poetica delle immagini che definirei quasi meditativa. In Gli scacchi della vita è evidente come il regista pugliese non debba più per forza ripiegare sulla sperimentazione dei colori o su particolari scelte di montaggio per riuscire a nel difficile compito di lasciare il segno nello spettatore. A parlare sono le inquadrature, così come le ormai consapevoli scelte nella composizione dei quadri e nel bilanciamento degli elementi presenti nella mise en scène (un notevole passo avanti peraltro già notato in Una vita nel mistero). A questo va aggiunto anche un particolare che, personalmente, mi ha fatto piacere vedere finalmente presente in uno dei lavori di questo regista, ovvero la preponderanza di inquadrature realizzate con una macchina fissa, finalmente scevre delle fastidiose vibrazioni date dal braccio del cineoperatore.
Le note dolenti arrivano semmai da altre direzioni. In primo luogo la poco efficace scelta degli attori, assolutamente poco incisivi e non credibili (eccezion fatta per il bravo Michael Segal) – è scostante vedere, ad esempio, come il protagonista parli con un forte accento pugliese nell’età dell’adolescenza e poi diventi improvvisamente lombardo da adulto. La seconda pecca è data dall’onnipresente artificiosità dei dialoghi (intravista già in Weekend tra amici), che alla lunga dà al film una patina straniante e inverosimile – nessun anziano in Italia chiama “ragazzo” gli adolescenti. Dato il forte legame del regista con il territorio, sarebbe una scelta coraggiosa ma affascinante l’assistere a un suo lavoro con attori che recitano in dialetto con l’aiuto dei sottotitoli: credo che ne guadagnerebbero in verosimiglianza e ritmo, oltre a celare efficacemente l’impreparazione che talvolta emerge dagli attori non professionisti (Gomorra docet).
Le musiche di Luca Auriemma questa volta non brillano e si perdono un po’ in facili stereotipi, rendendo le diverse scene delle cornici un po’ banalizzate.
Un lavoro discreto, ma potenzialmente ottimo.
Voto: 7
a cura di Giorgio Mazzola