Da lungo tempo fuori catalogo, e a vent’anni dalla prima edizione, torna a gennaio in libreria il romanzo che ha reso famoso Eraldo Baldini.
Primi anni Novanta. Tre bambine, nel giro di poche settimane, spariscono come inghiottite dalla nebbia che spesso avvolge Ravenna, una città dove i paesaggi del porto, della marina e della zona industriale formano uno strano contrasto col tranquillo “salotto” del centro storico. All’improvviso una nube di paura scende a oscurare la vita di tutti i giorni, facendo serpeggiare apprensione, incredulità e senso di impotenza, che cresceranno quando la vicenda, in un incalzante susseguirsi di colpi di scena, assumerà contorni di puro orrore. Sarà Carlo Bertelli, cronista di provincia che trascina senza entusiasmi una vita in crisi, a doversi suo malgrado immergere in una storia terribile, spinto soprattutto dal bisogno di proteggere la piccola Chiara, figlia del suo migliore amico morto in mare.
Spietato e tenero, commovente e durissimo, Bambine è un noir pieno di suspense e di lucide disamine del Male, e nel contempo – come sottolinea Carlo Lucarelli nella sua Prefazione – «uno splendido racconto sull’amicizia, sull’amore e sulle delusioni di una generazione inquieta in una terra che è stata definita “sazia e disperata”».
Bambine, Anno: 2015, pagine: 128, Codice ISBN: 978-88-9860-529-3,
Collana: Fernandel, Editore: Fernandel Edizioni.
LA PREFAZIONE DI CARLO LUCARELLI
Nessuno tranne Eraldo Baldini, attento osservatore della metà oscura di una terra contraddittoria e dai diversi volti come l’Emilia-Romagna, sarebbe riuscito a scrivere una storia come questa. Una storia che è allo stesso tempo spietata e tenera, commovente e durissima, proprio come la striscia di terra in cui si ambienta: quella della riviera adriatica. Una vicenda di bambine rapite e brutalmente uccise da un maniaco che si intreccia con quella, umana e toccante, dell’affetto tra un giornalista e la piccola Chiara, figlia del suo miglior amico, morto in un incidente di mare.
Sullo sfondo di una riviera e di una Ravenna dai diversi volti, spesso inediti e insospettati, un po’ nebbioso e sinistro borgo padano, un po’ sfavillante e insonne divertimentificio, un po’ porto di mare difficile e bizantino, si dipana, con la suspense e i colpi di scena tipici di un grande noir, una storia terribile di orrore e di morte che è insieme uno splendido racconto sull’amicizia, sull’amore e sulle delusioni di una generazione inquieta in una terra che è stata definita «sazia e disperata».
Perché Bambine è soprattutto questo: la storia della solitudine di una generazione che vive in un contesto umano diabolicamente ambiguo, che offre molto, forse troppo, ma a patto che lo si consumi in fretta. Ed è proprio lì, tra le nebbie della riviera, che si nasconde la metà oscura di ognuno di noi.
UN ASSAGGIO DEL LIBRO
I colpi del pallone e le urla delle giocatrici rimbombavano nella palestra. Cristiana aveva già lasciato il parquet e, seduta sulla panca, si tergeva il viso con l’asciugamano.
« Vai a fare la doccia, su! » le disse la signora Fabbri, l’allenatrice, passandole dietro e accarezzandole appena i lunghi capelli biondi fermati da elastici colorati. Era sempre armata di pazienza, la signora, ma quando diceva qualcosa bisognava ubbidirle. Pazienza e polso: doti indispensabili per gestire quel nugolo di piccole giocatrici di pallavolo.
Cristiana prese la borsa e si avviò lenta, guardando quelle che ancora continuavano ad allenarsi sotto rete. Nello spogliatoio, gettando a terra la tuta sudata che si appiccicò con un plac al pavimento, pensò che erano le sette e mezzo di sera e ancora non aveva fatto i compiti. Spesso li rimandava a un’esigua mezz’ora
prima di cena: tanto, era veloce a farli. Aveva undici anni, era in prima media, ed era la prima della classe. Una cosa, quest’ultima, che le riusciva facile, senza bisogno di secchioneria, senza dover faticare sui quaderni e sui libri. Amava più il volley della scuola, ma era brava in entrambe le cose.
Tolse gli elastici dai capelli con delicatezza, per non procurarsi dolore, poi mise la cuffia di plastica e aprì la doccia. Non riusciva a smettere di sudare, e il getto dell’acqua calda non avrebbe migliorato la situazione. Si lavò lentamente, a occhi chiusi, poi si asciugò, indossò le mutandine, una maglietta, la tuta pulita e calzò un altro paio di scarpe da ginnastica, simili a quelle con cui si era allenata; ficcò nella borsa alla rinfusa i panni bagnati, la bottiglia del bagnoschiuma, la cuffia, le scarpe, gli elastici, le ginocchiere e tutte le altre cose che aveva sparse intorno. A casa, poi, mamma le avrebbe dato una mano a mettere a posto. Da una tasca esterna della borsa prese un chewing-gum. Faticare le faceva non solo venire sete, ma le procurava in bocca un sapore cattivo.
Quando uscì dallo spogliatoio, trovò su di sé gli occhi attenti della signora Fabbri: « Metti il cappotto, e a casa di corsa, signorina! A mercoledì ».
Cristiana le sorrise, salutò le compagne che stavano riponendo i palloni, mentre una parte dei neon sul soffitto si spegneva e la palestra piombava nella semioscurità.
Quando uscì le arrivò sul viso l’aria fredda e nebbiosa di quella sera dei primi di marzo, e lei alzò bene il bavero del cappotto a proteggersi la gola. Il suo punto debole. Si beccava non meno di quattro o cinque faringiti ogni inverno, nonostante l’avessero liberata dalle tonsille già da molto tempo. Non era spiacevole
potersene stare ogni tanto lontana dalla scuola e dalle levatacce mattutine ma le mancava la pallavolo, quando era ammalata, le mancavano gli amici.
Casa sua non era lontana, duecento metri appena. Quando aveva iniziato a frequentare la palestra, mamma o papà venivano ad aspettarla all’uscita. Poi lei non li aveva voluti più: nessuna delle sue compagne che abitavano nei dintorni si faceva scortare, e lei non voleva fare la figura della cocca di mamma o della fifona. E poi, aver paura di cosa? La strada era zeppa di lampioni, passava tra due file di palazzine e c’era sempre gente in giro, a quell’ora.
Però a metà del percorso c’era lo spiazzo, che si apriva su entrambi i lati della via. Era un’area sterrata che veniva usata da appendice al parcheggio di un supermercato; a volte vi si fermava qualche roulotte di zingari, o vi veniva alzato il tendone di un piccolo circo. Spesso, di sera, c’erano ragazzini fermi sui loro ciclomotori, e qualche volta l’avevano apostrofata, le avevano detto qualcosa, quando lei era passata di lì. « Bella biondina », l’avevano chiamata una volta, e poi avevano riso. Lei aveva continuato a camminare e a masticare il suo chewing-gum senza girarsi. Di essere bella lo sapeva. E i suoi capelli colpivano tutti: così lunghi, biondi, sempre ornati – era una cosa a cui lei dedicava una cura divertita – di nastrini e fiocchetti.
Lo spiazzo. Non aveva mai avuto paura di passare di lì, e neppure adesso ne aveva; ma il ricordo dell’uomo-della-foto tornava ogni volta che doveva percorrere quelle poche decine di metri privi di case. Era successo qualche settimana prima: accanto al cassonetto dei rifiuti ai margini di quel largo non asfaltato, c’era un uomo strano; quando lei era passata, lui aveva detto: « Ehi! » Lei si era girata allungando il passo, e lui le aveva scattato una foto con una polaroid col flash, uguale a quella che aveva anche papà.
Aveva sentito, in quel momento, che le si arroventavano le guance. Aveva provato qualcosa di più simile all’imbarazzo che alla paura. Dopo qualche passo si era voltata per vedere se l’uomo la seguisse, ma era sparito; e non l’aveva incontrato più, nelle sere seguenti.
A casa non aveva parlato dell’accaduto: avrebbe fatto nascere un sacco di problemi, primo fra tutti quello di dover essere di nuovo scortata su quel tragitto. E poi, come nel momento della foto, provava quasi vergogna: si sentiva in qualche modo in colpa, senza sapere il perché, e c’era una sorta di strano pudore che le avrebbe reso difficile raccontare l’episodio. Solo con Elisa, la sua compagna di banco, l’aveva fatto, e avevano fantasticato che quello, forse, era un tizio che cercava volti nuovi per la tivù o per la pubblicità. Anche se a dire il vero non ne aveva proprio l’aspetto. Col passare dei giorni, prima ne avevano riso, poi non ne avevano parlato più.
Arrivò allo spiazzo ed ebbe la tentazione di affrettare il passo. Ma si costrinse a non farlo: non aveva paura, non c’era ragione di averne, e quindi neppure di correre.
Non c’era gente in giro a piedi, nella sera nebbiosa; passava qualche auto, e per il resto era quasi silenzio. Si sentiva, monotono, il ronzio di una linea di cavi elettrici nell’umidità. Cristiana guardò dalla parte dello spiazzo più ampia e più buia, tirando su meglio il bavero del cappotto e respirandovi attraverso fino a sentirlo caldo e umido sulle guance e a riceverne un senso di protezione.
Poi udì lo scatto di uno sportello che si apriva, e una voce d’uomo: « Ehi, bimba, aspetta, voglio darti la tua foto… »
Lei sentì una scarica di adrenalina esploderle dentro; ma non fece neppure in tempo a girarsi o a gridare, che due braccia forti l’avevano già tirata nell’abitacolo.
L'AUTORE
Eraldo Baldini è nato a Russi (Ra) e vive a Ravenna. Nei suoi romanzi ha saputo coniugare “gotico rurale”, noir e horror in una vena originale. Fra i suoi libri più recenti ricordiamo: Nebbia e cenere (2004), L’uomo nero e la bicicletta blu (2011), Gotico rurale (2012), Nevicava sangue (2013), tutti pubblicati da Einaudi e tradotti in diverse lingue. Per Fernandel nel 2015 ha pubblicato la raccolta di racconti umoristici Fra l'Adriatico e il West.