Il 1979 è l’anno che, dopo l’attenzione della critica, porta a Hill anche i primi successi al botteghino. Non solo come regista di The Warriors, ma anche come produttore, insieme a David Giler e Gordon Carroll, di Alien. Si tratta dell’esordio come producer di Hill, che in seguito produrrà non solo gran parte dei propri film (alla maniera dei grandi vecchi di Hollywood, si può presumere più che altro per avere un maggiore controllo artistico) ma anche alcuni (pochi) di altri registi, autodefinendosi “un medio produttore indipendente”. Nel 1978 nelle mani di David Giler capita una sceneggiatura scritta da Dan O’Bannon e Ronald Shusett. O’Bannon ha studiato alla University of South California come John Carpenter e proprio con Carpenter ha realizzato un cortometraggio di fantascienza come prova d’esame, Dark Star, diventato poi un lungometraggio nel 1974. Già ideando l’alieno di Dark Star (un palloncino) O’Bannon aveva pensato a un soggetto con un alieno meno grottesco e più terrificante. Da questa idea nasce lo script di Alien. Giler legge la sceneggiatura e la trova interessante, tanto da passarla al socio Walter Hill. A Hill piacciono molto alcune parti ma complessivamente non lo soddisfa appieno. Ci mette mano, insieme a Giler, aggiungendo alcune idee (il gatto di Ripley, il robot). Secondo O’Bannon, Hill, Giler e il terzo socio Gordon Carroll avrebbero avuto l’intenzione di appropriarsi del suo script, estromettendolo. Anche se poi alla fine sui titoli di testa risulteranno autori della sceneggiatura solo lui e Shusett. Querelle a parte, attraverso vari apporti prende forma il copione di uno dei più importanti film di fantascienza degli anni Settanta. Superato lo scoglio della sceneggiatura e trovata nella Twentieth Century Fox la major disposta a finanziare il film, parte la caccia al regista. Si pensa all’anziano maestro Robert Aldrich, reduce da alcuni bellissimi film come I ragazzi del coro e il fantapolitico Ultimi bagliori di un crepuscolo, entrambi del ’77. Poi a Peter Yates, regista che Hill conosce dai tempi di Bullitt e che ha dimostrato col sottovalutato Abissi (’77) d’essere abilissimo nel genere avventuroso e nel creare suspense.
Lo stesso Hill entra nel novero dei candidati, ma si tira indietro non sentendosi a proprio agio con gli effetti speciali e anche perché gli è stato offerto di dirigere un western, poi mai realizzato. Alla fine la scelta cade su Ridley Scott, regista che ha maturato grande esperienza nel campo pubblicitario e che si è segnalato per il suo film d’esordio, I duellanti, del 1977. Il regista inglese si applica meticolosamente per realizzare un film pieno di suspense e molto elaborato dal punto di vista visivo, curatissimo sotto il profilo scenografico e degli effetti speciali. Se volessimo, forzando un po’, considerare Alien un film con più paternità, quindi tanto di Scott quanto di Dan O’Bannon quanto di Hill (e di Giler, Shussett, Giger eccetera) e lo considerassimo dopotutto un film americano al di là del fatto che il regista sia inglese e che sia stato girato in Inghilterra, vedremmo alcune affinità con I guerrieri della notte (sceneggiatura sostanzialmente scarna, azione privilegiata, personaggi uniti in un gruppo che devono difendersi da un nemico, ambientazione notturna). Non abbiamo intenzione di rendere d’autore cioè che non lo è, e ci pare obiettivamente di poter considerare Alien un’apprezzabile opera artigianale nel vero senso della parola (con buone dosi di artisticità) e non un film d’autore, ma se anche lo fosse, non faremmo certo di Hill l’autore. Più interessante capire se Alien e I guerrieri della notte siano assimilabili e rappresentino due titoli fondamentali per analizzare il cinema americano (e industriale, dopotutto) del periodo che va dalla metà degli anni Settanta alla metà del decennio successivo.
Potremmo partire dal rilevare come le dinamiche definiamole creative del cinema americano sul finire degli anni Settanta partano dalla ricerca, più o meno coerente e sistematica, di un ben preciso luogo spazio/temporale, che può anche essere un non-luogo. Luogo-non-luogo che, tenendo conto delle radici del cinema americano (la frontiera, quindi gli spazi sconfinati ma anche un saldo rapporto con la Natura, la terra, la famiglia), in un’accezione urbana significa necessariamente mutevolezza (basta passare da una via all’altra, da un quartiere all’altro), spaesamento, inconoscibilità. Alien non può certo essere definito un film urbano, eppure gli spazi dell’astronave, che nascondono un pericolo imprevedibile e reiterato, ricordano le strade popolate di potenziali nemici de I guerrieri della notte. Vi è, tra le pareti metalliche della Nostromo, la medesima, fredda, insondabile presenza mentale dell’uomo in movimento che costituisce il fulcro della messa in scena di The warriors (ma anche, seppur mediata dalle traiettorie delle automobili che quasi prendono il sopravvento su quelle umane, in Driver). La descrizione che lo stesso regista ha dato del suo cinema, la frase “faccio film su uomini duri in situazioni pericolose”, si attaglia perfettamente sia ad Alien che a I guerrieri della notte. Tuttavia si potrebbe aggiungere che i suoi personaggi sono soprattutto, nella maggior parte dei casi, personaggi che cercano un proprio spazio, un luogo sicuro o, meglio ancora, un rapporto armonioso con ciò che li circonda (si chiami tutto ciò il Mondo, la Società, gli Altri, poco importa). Non a caso nel finale di Alien Ripley espelle il mostro dalla navetta: se non siamo di fronte a una vera e propria metafora dello spazio vitale, poco ci manca.
a cura di Roberto Frini