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Paura nella città dei morti viventi di Lucio Fulci


Diciamo prima di tutto che il sanguinolento raggiunge qui vertici (artistici?) inimmaginabili. Il regista non ammorbidisce mai l’atmosfera cupa con l’ironia, accentuando anzi il lato morboso/macabro della vicenda (scritta insieme a un Sacchetti particolarmente ispirato). Il sovrannaturale e il gore vengono miscelati con terribile efficacia. La costruzione del plot, in cui le singole scene si susseguono senza una necessità forte, impediscono allo spettatore di godere dello spettacolo dell’orrido, che dunque finisce per non assolvere alla sua funzione catartica: l’occhio di chi vede sanguina come quello dei personaggi, perché non c’è alcun riparo consolatorio. Non vi è lieto fine, né vi sono eroi o interpretazioni di particolare bravura che possano in qualche modo mitigare l’effetto delle scene più scioccanti. Anzi, Fulci brutalizza proprio i due attori di maggior richiamo (in cui in teoria lo spettatore avrebbe potuto identificarsi), vale a dire l’americano Christopher George, il duro di tanti western, e la svedese Janet Agren, sex-symbol degli anni Settanta. Mentre la narrazione è elaborata in una maniera più complessa di quanto possa sembrare (e guarda al Carpenter di Fog), la vicenda è riassumibile in poche righe (il che non rappresenta necessariamente un difetto). In una cittadina americana un prete si uccide impiccandosi a un albero del cimitero. Nello stesso tempo a New York una giovane medium ha una visione del suicidio che la fa cadere in preda al deliquio. Creduta morta, viene quindi sepolta. Solo l'intervento di un giornalista le salva la vita. Intanto i morti viventi usciti dalle tombe cominciano a invadere la cittadina. Varie volte i personaggi pronunciano la parola “paura” nel corso del film, e la paura (della morte) è davvero il tema dominante dell’intera produzione orrorifica di Fulci. Agghiacciante, sadico (si veda ad esempio la scena estremamente dettagliata del ragazzo ucciso con il trapano), lento di una lentezza insostenibile perché squarciata da particolari atroci e nauseabondi (la ragazza che vomita le propria interiora), Paura nella città dei morti viventi è stato tempo fa beffeggiato da Tarantino (peraltro a suo dire grande estimatore di Fulci) per i living dead troppo impacciati nei movimenti. A parte che non è del tutto vero (in una scena notturna un morto vivente interpretato dal futuro regista Michele Soavi aggredisce il bambino compiendo un balzo atletico) ma proprio in questo sta l’intuizione di Fulci: è vero, gli zombi sono lenti (o meglio, la messinscena finisce quasi per cristallizzarne la presenza), e per questo fanno più paura dei vampiri acrobati di Dal tramonto all’alba o dei morti viventi da baraccone, esagitati di Raimi e Peter Jackson. Sono lenti, ma sai che prima o poi ti prenderanno. È questa attesa che agghiaccia il sangue nelle vene. L’attesa fa inorridire più del sangue. Il film di Fulci però non è solo sangue, orrori a non finire e paura. Bellissima, ipnotica la colonna sonora di Fabio Frizzi. La visione della bassa macelleria fulciana è dunque altamente consigliata come antidoto al piattume cine-italico contemporaneo.

    
a cura di Roberto Frini