Il film racconta la storia vera
di Christopher McCandless, un ragazzo di famiglia benestante il quale, dopo la
laurea conseguita nel 1990, decide, prima, di donare tutti i suoi risparmi in
beneficenza e, in seguito, di partire per un viaggio lunghissimo negli USA, dal
Messico all’Alaska. Christopher, di fatto, scompare da tutto e da tutti, decidendo
di adottare lo pseudonimo di Alexander Supertramp dopo aver distrutto tutti i
suoi documenti. Lo attende un viaggio incredibile, costellato di incontri che
gli cambieranno la vita, alla scoperta delle terre selvagge degli Stati Uniti.
Quarto film da regista per Sean
Penn e sicuramente il più travagliato, sia prima che durante la sua
lavorazione: un’incubazione di almeno 15 anni; le difficoltà nel convincere la
famiglia Mc Candless ad acconsentire uno sceneggiato sulla vita del figlio; le
condizioni proibitive nelle quali la troupe si è trovata a dover girare, tra
deserti caldissimi e gelide foreste del nord. Un lavoro estenuante che ha
comunque prodotto un film di spessore grazie soprattutto alla determinazione di
Penn, innamoratosi del soggetto dopo aver letto il romanzo di John Krakauer da
cui è stato tratto, ovvero Nelle terre
estreme (Into the Wild, 1997).
Un film di spessore, dicevo. Una
fotografia mozzafiato di Eric Gautier che già aveva dato prova di bravura in I diari della motocicletta (Diarios de motocicletta, 2004) e che qui
si trova costretto a dare il meglio di sé per descrivere i veri protagonisti di
questa pellicola, vale a dire gli stupendi paesaggi naturali americani. Il
fascino di una storia vera; l’intensità dell’ambientazione; la suggestiva
divisione in capitoli “trascendentali”; il ritmo narrativo che si appoggia a
quello trascinante delle canzoni di Eddie Vedder e delle musiche di Michael Brook
ed
Kaki King; elementi importanti e caratteristici che sembrano elevare questo
film a un livello di tutto rispetto, ma che in realtà ne costituiscono
impietosamente la vera e un po’ misera essenza. Se durante la visione del film,
infatti, si passa gran parte del tempo ad ammirare montagne, laghi, deserti,
animali di qualsiasi tipo; e ad ascoltare l’infinita sequela di massime che
escono dalla bocca del protagonista, in un generale e invadente revival hippy neanche
troppo celato, allora mi nasce quantomeno il sospetto che tutto sia finalizzato
a oliare la gigantesca macchina della suggestione che sembra stare alla base di
tutto il lavoro. L’impressione è quella di star di fronte ad un gigantesco
videoclip ad altissimo budget, dato che risulta talvolta difficilissimo
riuscire a capire se siano le musiche a supportare la storia o viceversa. Nel
tripudio anticapitalista (definizione generosa) che pervade il film, infatti,
la voce di Eddie Vedder sembra quasi sgomitare per ottenere un’attenzione maggiore,
rivendicando in qualche modo il ruolo di “bandiera della ribellione contro la
società” che si era illusa di incarnare quando ancora era parte del sound dei
Pearl Jam. E’ proprio l’insopportabile e costante insistenza sul trinomio
“musica ribelle – natura selvaggia – protagonista contro le regole” che rende
questa pellicola una sorta di gigantesco meccanismo atto a soddisfare il
sentimento di “vaffanculo al mondo” che sicuramente sarà stato presente in
molti di quelli che avranno amato questo film. Non sto giudicando i fan di Into the Wild, ma sto esprimendo le mie
perplessità nei confronti di chi l’ha giudicato un prodotto assolutamente
magnifico e privo di ogni difetto. Il film in sé è molto ben strutturato,
visivamente impeccabile e astutamente sorretto da una colonna sonora
magistrale. Ma se tutto questo, come dicevo in precedenza, è finalizzato solamente ad alimentare e
solleticare la suggestione e le fascinazione del pubblico, allora il punto di
vista cambia e non può che essere negativo.
Approvo il film in sé, ma lo
boccio prendendomi tutta la responsabilità di un processo alle intenzioni.
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Voto: buono.
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Di seguito il trailer ufficiale in italiano:
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A cura di Giorgio Mazzola - Copyright © 2011
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