John Guillermin, nato l’11 novembre del 1925 e deceduto in California il 27 settembre del 2015, appartiene a quella categoria di registi che non ha mai beneficiato del titolo di Autore. Anzi, soprattutto negli anni Settanta passava per essere soltanto un discreto mestierante. In qualche caso, in maniera ancora più sprezzante, veniva definito uno yes-man. Un regista in sostanza a cui si poteva affidare qualsiasi sceneggiatura sapendo che non nutriva velleità particolari e che avrebbe quindi diretto in maniera professionale, senza guizzi e garantendo un buon successo al botteghino. Con ogni probabilità tale etichetta gli venne affibbiata soprattutto quando firmò L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, ’74), sotto la supervisione (ma ormai viene quasi sempre accreditato come co-regista) del grande produttore Irwin Allen. Il film fu uno dei primi disaster-movie (nello stesso anno uscì anche Terremoto, diretto da Mark Robson) e sicuramente uno dei migliori, con alcune sequenze molto spettacolari. Certo, in quegli anni il cinema americano stava cambiando, guardava all’Europa e cercava di svincolarsi dalla tradizione hollywoodiana dei kolossal, dei cast stellari e del puro consumo, per cui film come L’inferno di cristallo e registi come Guillermin non potevano essere visti di buon occhio. I tempi delle teorizzazioni disincantate sul cinema-cinema, delle riletture e rivalutazioni dell’effimero sarebbero arrivati di lì a poco. Dopo L’inferno di cristallo, in ogni caso, Guillermin diede un ulteriore contributo al rilancio delle pellicole avventurose ad altissimo budget, chiamato da un altro titanico produttore, il nostro Dino De Laurentiis. King Kong, del 1976, inaugurò in un certo senso la stagione dei remake e di un cinema nostalgico e regressivo. Sul film, poco apprezzato anche dagli appassionati del fantastico, pesò ovviamente il confronto col capolavoro del 1933 diretto da Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper (cosa che in verità capita quasi sempre ai rifacimenti). A distanza di tanti anni tuttavia non si può non guardarlo con occhio diverso (specie dopo l’ipercinetico King Kong di Peter Jackson) e apprezzarne almeno l’estatica e quasi sognante prima parte, intrisa di un erotismo lussureggiante. Uno spiccato gusto retrò (cominciava in quegli anni, d’altronde) emerse dal film successivo, Assassinio sul Nilo (Death on the Nile, 1978) tratto dal romanzo di Agatha Christie. Guillermin dimostrò d’essere capace di creare una discreta atmosfera, che è poi quello che conta maggiormente in questo genere di film. L’Egitto assolato fa da sfondo a un tipico giallo nel quale bisogna scoprire chi è l’assassino, il tutto condito da una sottile perfidia tipica della Christie. Non era però nelle corde del regista, a suo agio con vicende più movimentate. Infatti nel 1984 tornò dietro la macchina da presa per dirigere Sheena, regina della giungla (Sheena), un Tarzan in gonnella che ha le splendide fattezze di Tanya Roberts. Un ritorno al passato, per Guillermin, che qualche decennio prima aveva diretto due film con protagonista l’eroe della giungla: Il terrore corre sul fiume (Tarzan’s Greatest Adventure, 1959) e Tarzan in India (Tarzan Goes to India, 1962). Tratto dal fumetto omonimo e scritto da una coppia di sceneggiatori di vaglia come David Newman e Lorenzo Semple jr (quest’ultimo già tra gli autori di King Kong), Sheena, regina della giungla non ebbe un grande successo ma è un film da riscoprire. Stesso discorso per il successivo King Kong 2 (King Kong Lives, 1986) sempre prodotto da De Laurentiis e ultimo della carriera di Guillermin. Qui i gorilla giganteschi sono due, un maschio e una femmina, e la vicenda sentimentale sostituisce quella più sensuale tra Kong e Jessica Lange del film precedente. Il buon piglio del regista si nota nelle scene d’azione, a cui aggiunge persino alcuni timidi tentativi splatter, che per contrasto accentuano la sostanziale ingenuità dell’insieme, tipica di un cineasta d’altri tempi. Se abbiamo concentrato la nostra attenzione all’incirca sull’ultimo decennio dell’attività di Guillermin è proprio perché evidenzia quanto di buono è riuscito a fare in un’epoca di passaggio, nel quale il cinema cominciava a cambiare in maniera molto rapida. Non certo perché non avesse realizzato dei film interessanti anche prima. Ricordiamo almeno il noir I gangsters di Piccadilly (Never Let Go, 1960), i bellici La caduta delle aquile (The Blue Max, 1966) e Il ponte di Remagen (The Bridge at Remagen, 1969) e il thriller Il castello di carte (House of Cards, 1968).
a cura di Roberto Frini