La frase più bella e significativa su Wes Craven l’ha detta, non a caso, un suo grande collega e amico: John Carpenter. “Era un regista della vecchia scuola”. Che significa (supponiamo, quanto meno) dare molta importanza alla sceneggiatura e all’impianto narrativo, alla definizione dei personaggi, alle inquadrature, al montaggio e a un minimo di direzione degli attori. Ma anche, forse, avere qualcosa da dire. Seguendo certi principi (che dovrebbero essere basilari, ma tant’è), Craven ha contribuito all’uscita del genere horror dalla marginalità a cui era costretto (considerato alla stregua di un intrattenimento di poco conto). Nato a Cleveland, laureatosi in lettere e filosofia, dopo alcuni anni in cui insegna materie umanistiche (come il collega Tobe Hooper, che con lui condivide gli inizi slasher zeppi di situazioni forti), sceglie di dedicarsi al cinema. Esordisce collaborando al soft Together (1971), diretto da Sean S. Cunningham (il futuro regista di Venerdì 13) e che segna il debutto, in un piccolo ruolo, di Marilyn Chambers (attrice di film pornografici e interprete, nel 1977, di Rabid- Sete di sangue, diretto da Cronenberg). Il primo, vero lungometraggio, del 1972, si ispira nientemeno che allo splendido La fontana della vergine (1960, Ingmar Bergman).
L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972) rappresenta senza dubbio un’opera cruciale per quel che riguarda il New Horror americano, pur se Craven negli anni a venire sosterrà di non apprezzarlo particolarmente. Uno dei primi esempi di rape&ravenge (dopo Cane di paglia di Peckinpah), ha squarci visionari che anticipano le opere del decennio successivo. Con Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) insiste nell’approccio realista e nell’uso di una violenza esplicita, ma persegue anche una metaforica e impietosa rappresentazione sociale (e dell’essere umano che ne è responsabile). Ispirato a un caso realmente accaduto nel XVII secolo, narra di una famiglia in vacanza massacrata da un manipolo di assassini cannibali. Con questo film diventa, dopo Romero (La notte dei morti viventi), e insieme a William Friedkin (L’esorcista), Larry Cohen (Baby Killer), David Cronenberg (Il demone sotto la pelle), Tobe Hooper (Non aprite quella porta), David Lynch (Eraserhead – La mente che cancella), Brian De Palma (Carrie - Lo sguardo di Satana) e Carpenter (Distretto 13 – Le brigate della morte), uno degli alfieri impegnati a rinnovare temi e atmosfere dell’horror su pellicola (senza dimenticare però gli apripista come il grande Roger Corman, e poi Herschell Gordon Lewis, Jack Hill, eccetera).
Nelle opere di questi registi i meccanismi che scatenano paura e angoscia non sono soltanto elementi di contorno, ma cardine del film, grimaldello con cui scardinare gli stereotipi interni al genere e, oseremmo dire, le convenzioni del cinema (e non solo) borghese. Che poi tale ribellismo di derivazione surrealista possa essere addomesticato e reso innocuo è una questione con cui ha dovuto fare i conti lo stesso Craven (i risultati li abbiamo sotto gli occhi). In ogni caso, l’orrore (come il comico), lo sappiamo, poiché utilizza materiali ritenuti di bassa levatura, a maneggiarlo bene permette di affrontare tematiche controverse e di sovvertire regole e morale. Nel 1981 dirige il sottovalutato Benedizione mortale (Deadly Blessing), ambientato in una comunità di Ittiti, con il quale approccia il sovrannaturale e il fantasy. Pregevoli alcune scene, su tutte quella con protagoniste una vasca da bagno e una ragazza (decisamente anticipatrice: vedere per credere). Seguono due film per la tv (tra cui Swamp Thing – Il mostro della palude, basato su una celebre serie a fumetti di Len Wein e Berni Wrightson), poi nel 1984 ottiene un clamoroso e inaspettato successo con Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street). Capolavoro nel quale riesce a miscelare realismo e fantasy, gore e atmosfere oniriche in modo magistrale. Inventando, oltretutto, un personaggio destinato a entrare nella leggenda: Freddy Krueger, revenant che uccide gli adolescenti attraverso i loro incubi, riproposto in una serie di seguiti e rifacimenti che ancora oggi non sembra avere fine. Nonostante lo stesso Craven si riappropri della sua creatura nel 1994 con Nightmare – Nuovo incubo, per chiudere definitivamente il cerchio. Senza, purtroppo, riuscirci.
La svolta verso un horror più fantastico e visionario, nella seconda metà degli anni Ottanta (in linea è bene precisarlo con la tendenza del periodo) si fa netta. E oltretutto giova al regista, tenendo conto che Le colline hanno gli occhi II (The Hills Have Eyes part II, 1985) si rivela un mezzo fallimento, sia dal punto di vista artistico che da quello degli incassi. Craven non si accontenta certo di soggetti banali, ma è innegabile che nel periodo successivo all’exploit di Nightmare cerchi di riproporne le medesime suggestioni sia in Dovevi essere morta (Deadly Friend, 1986) che in Sotto Shock (Shocker, 1989). Entrambi hanno degli adolescenti come protagonisti, che si muovono nella consueta cittadina middle-class americana. Il primo è un curioso incrocio tra un film d’avventure fantasy e una storia di morti viventi. Nonostante il risvolto sentimentale, non mancano le scene splatter (la morte di Anne Ramsey non si dimentica tanto facilmente). Sotto shock, prodotto dalla Alive Films (una casa di produzione indipendente e benemerita che in quel periodo produsse anche vari Carpenter e che lo stesso Craven lodò perché “offre delle cose che nessun altro si sogna di fare”), presenta un cattivo di notevole appeal: Horace Pinker è un serial-killer condannato alla sedia elettrica che però invece di morire diventa una sorta di fantasma dell’etere, fino a materializzarsi nei canali video. La lunga battaglia-zapping che vede il protagonista e il mostro attraversare vari programmi televisivi (e nel quale compare anche Timothy Leary, lisergico guru della pop-culture americana) è una sequenza geniale, tra le migliori e più complesse girate da Craven. Il più riuscito del periodo è però Il serpente e l’arcobaleno (The Serpent and the Rainbow, 1988), allucinante variazione su un tema affrontato varie volte in quegli anni dal cinema USA: la magia nera (ricordiamo Angel Heart – Ascensore per l’inferno, di Alan Parker e The Believers – I credenti del male, di John Schlesinger, entrambi del 1987). Qui siamo ad Haiti, e il mistero del plot s’intreccia ai misfatti del potere politico (il riferimento ai tristemente famosi Tonton Macoutes del dittatore Duvalier non è certo casuale). Tensione e incubi ai massimi livelli, e anche in questo caso una scena da antologia: nella quale il personaggio principale viene sepolto vivo.
A dispetto dei risultati artistici, il botteghino non sorride a Craven, che paga il consueto tributo al mezzo televisivo con il non eccelso Delitti in forma di stella (Night Visions, del 1990) e s’aggrappa ancora una volta alla Alive Films per poter tornare dietro la macchina da presa. Lo fa con il thriller La casa nera (The People Under the Stairs, 1991), ispirato a un fatto di cronaca accaduto a Los Angeles alla fine degli anni Settanta. Interessante e più realistico dei titoli precedenti, anche se qualcosa di mostruoso sembra nascondersi nei sotterranei della casa degli orrori dove tre ragazzi del ghetto penetrano per compiere un furto. Curiosamente la coppia di cattivi è formata da Wendy Robie e Everett McGill, che avevano già recitato in coppia nella serie tv Twin Peaks, di David Lynch. Dopo i sei telefilm di Nightmare Café, ideati e diretti (insieme ad Armand Mastroianni) per il canale NBC, e il già citato Nightmare – Nuovo Incubo, il regista compie un altro mezzo passo falso con Vampiro a Brooklyn (Vampire in Brooklyn, 1995), protagonista Eddie Murphy. La commedia horror non è nelle corde di Craven, meno che mai con una star debordante (qui anche autore del soggetto e produttore) da dirigere. Un altro mezzo disastro che avrebbe potuto stroncare definitivamente la carriera di Craven. Invece, l’anno seguente firma Scream, accolto molto bene dal pubblico e dalla critica.
Scritto da Kevin Williamson (fin troppo elogiato per questo script) e prodotto dai fratelli Weinstein (non certo una garanzia di sobrietà, specie per quel che riguarda l’indiscriminato sfruttamento di ogni minima idea decente), è una sorta di meta-thriller che cerca di evidenziare i meccanismi del genere (slasher, soprattutto), decretandone il definitivo superamento. In un certo senso una parodia seria, da cui non a caso si svilupperanno (quasi come degli spin-off) una serie di film demenziali e non proprio raffinati, tra i quali Scary Movie (2000), di Keenen Ivory Wayans. A prescindere da ciò, l’assassino con la maschera che riproduce il celebre dipinto L’urlo di Munch, entra di diritto della storia del cinema del terrore. Da qui in poi, inutile negarlo, Craven vivrà di rendita. Il meglio lo darà dirigendo i tre sequel Scream 2 (1996), Scream 3 (2000) e Scream 4 (2011). Per il resto, film nella media. La musica nel cuore (Music of the Heart, 1999), con Meryl Streep; Cursed – Il maleficio (Cursed, 2004), una vicenda di lupi mannari; Red Eye (2005), il migliore dei suoi ultimi; My Soul to Take (2010). Da sottolineare la partecipazione al film collettivo (non horror) Paris, Je t’aime, del 2006. Il suo episodio, Père-Lachaise, è da recuperare. Nel 1999 pubblica un romanzo, La società degli immortali (Fountain Society), ristampato in seguito con il titolo Incubo. Resta da scrivere che le opere di Craven da mandare a memoria sono, senz’ombra di dubbio, quelle che hanno concretizzato un’idea, e cioè che “il vero orrore ha un volto umano”.
a cura di Roberto Frini