La giovane universitaria Justine entra a far parte di un gruppo di studenti ambientalisti intenzionati a raggiungere l’Amazzonia peruviana per bloccare la distruzione di una parte della foresta. Lo fanno utilizzando i telefonini e condividendo in streaming le riprese video del disboscamento. Arrestati dalla milizia e rimandati a casa, precipitano però con l’aereo nella giungla e vengono catturati da una tribù di feroci cannibali.
Per una volta ci sembra giusto cominciare da un giudizio sulla locandina. Potrà sembrare una notazione marginale ma non lo è affatto. D’accordo, oggi di un film si sa tutto molto prima che arrivi nelle sale, il trailer circola con mesi di anticipo. Tempo addietro però non era così, la locandina rappresentava il primo impatto con un’uscita cinematografica. L’appassionato poteva pregustare la visione principalmente attraverso ciò che veniva rappresentato in essa. E bisogna dire che non sempre il contenuto manteneva le promesse: in molti casi era alquanto menzognero (il che paradossalmente accresceva il suo fascino). Tutto questo preambolo per dire che la locandina italiana di The Green Inferno è una delle migliori viste negli ultimi anni (ma anche quella americana non scherza). E, oltre tutto, non mente per nulla, perché l’ultima opera di Eli Roth (Cabin Fever, Hostel) è un signor film. Girato nel 2013, esce soltanto adesso, ritardo che dimostra - ammesso che ce ne fosse bisogno - quanto i cannibal-movies non contino su un gran numero di estimatori. Resta però il dubbio che la post-produzione non sia filata proprio liscia, e che Roth abbia finito per tagliare qualche fotogramma cruento, ammorbidendo per quanto possibile un’opera che altrimenti avrebbe incontrato davvero delle grosse difficoltà a trovare un distributore. Almeno due o tre sequenze – a partire da quella iniziale – sembrano tagliate con l’accetta (per restare in tema). Siamo pronti a scommettere che a breve uscirà il dvd in versione uncut (in questo caso, per una volta, quanto mai interessante). Per comprendere il substrato da cui nasce The Green Inferno, bisogna sottolineare il fatto che Eli Roth è un sodale di Tarantino, produttore di Hostel. Sappiamo tutti (anche troppo bene, per la verità) che il regista di Pulp Fiction è un esegeta del cinema bis italiano, e il suo amico e collega non sembra da meno. Da questo orientamento cinefilo nasce l’idea di riproporre il genere cannibalico, che tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta fece la fortuna dei produttori italiani e rese celebri in tutto il mondo alcuni registi (ma ebbe vita breve). Tra questi, Ruggero Deodato, autore di Cannibal Holocaust (e anche di Ultimo mondo cannibale), dal quale The Green Inferno prende le mosse. Il titolo è infatti lo stesso con cui ha inizio la seconda parte del film uscito nel 1980 e che tanti problemi ebbe con la censura. Ma in realtà Roth omaggia (o trae ispirazione, fate voi) quasi tutte le pellicole italiane del genere (puntualmente citate nei titoli di coda), compreso il preferito da chi scrive, La montagna del dio cannibale, diretto da Sergio Martino nel 1978. Proprio questi riferimenti sembrano aver attirato anatemi e critiche inusitate e, detto chiaro e tondo, difficili da comprendere. Anche perché, con tutto il rispetto e la simpatia per Deodato, Lenzi, eccetera, non stiamo parlando di Roma città aperta o I vitelloni. Se consideriamo che qualcuno progetta di realizzare il remake de La dolce vita, non sembra proprio il caso di gridare allo scandalo per lesa maestà nei confronti di Cannibal Holocaust o Cannibal Ferox, vituperati ai tempi come oggi capita a The Green Inferno. Così come lasciano parecchio perplessi le riflessioni di chi lo snobba trattandolo come una specie di parodia. A parte il fatto che, per lo stesso motivo di cui sopra, non riusciamo a capire cosa ci sarebbe di male. Inoltre l’approccio ludico/goliardico all’horror, dagli anni Ottanta in poi è diventato quasi la regola (chi scrive certe cose probabilmente non ha mai visto i film di Henenlotter e Il ritorno dei morti viventi, Re-Animator, Society, Street Trash, tanto per citarne alcuni: il gusto dell’eccesso finisce sovente per sembrare parodistico) e d’altra parte è un marchio di fabbrica della factory di Tarantino (Dal tramonto all’alba cos’era se non un horror ai limiti della parodia?). Il buon lavoro di un regista si misura, in casi come questi, dalla capacità di trovare un equilibrio tra tensione e ironia o eventuali derive grottesco/demenziali. Dal saper dosare elementi (ripetiamo) apparentemente contrastanti o, ancora, dal portare all’estremo sia l’una che gli altri fino a creare una miscela esplosiva. Oso affermare che Eli Roth (dal sottoscritto in precedenza poco apprezzato) ci sia riuscito in maniera (quasi) magistrale. La scena più gore, quella nella quale il gruppo di attivisti scopre di aver a che fare con una tribù di cannibali, non solo è l’unica davvero efferata ai limiti dell’insostenibile (scelta azzeccata) ma è pure realizzata con sapienza: inquadrature e montaggio (senza contare ovviamente gli effetti speciali di trucco opera dei maestri Greg Nicotero e Howard Berger) dimostrano una competenza tutt’altro che disprezzabile. E non è l’unica. Citiamo almeno il sogno del pre-finale, che probabilmente non è piaciuto a nessuno e che invece ci pare geniale (messa in abisso del senso come ai bei tempi). Ma anche dal punto di vista visivo The Green Inferno supera di gran lunga la maggior parte degli horror (e non solo) recenti. L’uso del colore, ad esempio, per nulla banale. Vedi il rosso della tribù che torna nella maschera di Justine dipinta di bianco (immagine notevole). A proposito del personaggio principale, la studentessa è interpretata dall’attrice cilena Lorenza Izzo, moglie di Roth: ammettiamo che non la conoscevamo e che, comunque, difficilmente la scorderemo. Chiusa la parentesi. Segnaliamo, inoltre, le sapide frecciate rivolte all’uso dei cellulari (che alla fine, servono a ben poco, specialmente tra i cannibali) e la presa in giro dei vegetariani che, ironia della sorte, finiscono proprio tra i mangiatori di carne, umana questa volta. Quanto al resto, Eli Roth sembra essersi ricordato del celebre aforisma di Marx “La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, anche se si diverte a mischiare le carte. Forse, fa capire tra le righe, bisogna diffidare delle buone intenzioni quando sono troppo esibite. Tuttavia pare fuori luogo attribuire particolari intenzioni concettuali (per non dire politiche o morali) al regista. L’assenza delle quali non è sinonimo di cattivo cinema, specie in un’epoca come quella attuale di millantato impegno (e si torna all’aforisma marxiano). Insomma, siccome non stiamo trattando di questioni filosofiche ma di un film del terrore, ci pare che il miglior complimento che possiamo fare a The Green Inferno è che torneremmo volentieri a vederlo una seconda volta: il che capita ormai sempre più raramente.
a cura di Roberto Frini