Intervista ai Nefesh Core

1. Ciao ragazzi, partiamo proprio dal vostro ultimo singolo, la cover di “Lullaby” dei The Cure!
David: Ciao! Che dirti! Stiamo parlando di un vero e proprio inno generazionale del movimento new wave, al quale noi tutti siamo profondamente legati. C’è un legame intanto emozionale perchè ci ricorda di un preciso periodo della nostra adolescenza. E poi c’è un legame artistico dato che l’influenza della new wave degli anni 80 fa parte del nostro essere Nefesh Core. The Cure sono stati e sono tuttora una band formidabile, fatta di artisti sopra le righe e anche il loro ultimo album è un capolavoro. “Lullaby” è stata quindi una scelta dettata da tutte queste ragioni. E’ diventata presto una canzone perfettamente in linea con la nostra tracklist e credo che gli arrangiamenti che abbiamo messo in campo hanno sposato le atmosfere e il mood originario, rendendo però l’intera canzone un “nostro” brano. Peraltro, ci è piaciuto molto essere riusciti a trovare una linea vocale adatta a raccontare il testo visionario di Robert Smith. Ovviamente c’è molto groove e le chitarre distorte hanno aggiunto quel tocco “metal” che fa ugualmente parte del nostro songwriting. Ne è venuta fuori una gran bella song!
Ghigas: Non aggiungerei nient’altro rispetto a quanto ha detto David. Mi sono pregiato di registrare forse una linea di basso tra le più “ottantiane” che abbia mai sentito, uno dei marchi di fabbrica della canzone originale. Mi sono davvero divertito ed emozionato!

2. State lavorando a nuova musica? In fondo il vostro debutto è uscito nel 2020…
Ghigas: Hai ragione. Come sempre il passare del tempo vince su tutti i nostri ragionamenti. Sembra ieri, ma “Getaway” ha già 4 anni. Tuttavia, la sua uscita è avvenuta poco prima della pandemia che ha bloccato il mondo intero per quasi 3 anni, per cui sotto l’aspetto promozionale è ancora un album “giovane”. Allo stesso tempo, crediamo sia passato tempo sufficiente a dare luce al nuovo album. Tra l’altro, sempre a causa del lockdown, o forse dovremmo dire “grazie a”, abbiamo raccolto, scritto e pre-prodotto molte altre canzoni, e alcune di queste hanno le caratteristiche giuste per entrare a pieno titolo nel nostro secondo album. Quindi la risposta è: si, abbiamo tanta nuova musica, che stiamo finendo di arrangiare prima di iniziare a registrare in studio affinché diventi la tracklist definitiva. Naturalmente, c’è una evoluzione sia nel songwriting che nell’impalcatura sonora e già in quieta fase preliminare il mix generale ha acquisito più “pesantezza” fermo restando il respiro dark e gothic delle melodie e dei testi. Credo sia una naturale evoluzione che rispetta, a tutti gli effetti, ciò che eravamo e ciò che siamo.

3. Parliamo degli altri progetti musicali nei quali siete coinvolti, alcuni di grande spessore!
Ghigas: Come abbiamo avuto modo di dire in altre interviste, e se ci pensi a ragion veduta, siamo quattro musicisti navigati, dei veterani del rock e del metal. In particolare David e io siamo un “duo” da quasi venticinque anni. Componiamo, scrivendo tesi e musica praticamente ininterrottamente dal 1997, quando David già tastierista e compositore principale di una nota prog metal band di Catania chiamata “Metafora”, dopo lunghe ricerche, mi contattò tramite il singer della band, un certo. Io Lombardo (Metatrone, Ancestral, ex Orion Ridere) che conoscevo da tempo perchè avevamo suonato insieme in una piccola rock band nella prima metà degli anni novanta. Ascoltai qualche brano e entrai subito nella band, la stessa che un paio di anni dopo, cambiò nome in “Metatrone”, proprio quando David ci comunicò la decisione di entrare in seminario per studiare teologia e diventare sacerdote. Senza entrare nei dettagli di una storia per molti versi incredibile, ti basti sapere che durante i primi mesi di seminario (ovviamente nel fine settimana riuscivamo sempre e vederci io e lui per continuare a comporre le canzoni di quello che stava diventando il nostro primo album) i sacerdoti anziani e i formatori, incuriositi dalla nostra musica, appresero che stavamo scrivendo testi ispirati a Cristo al suo messaggio e alla fede cristiana, pur sempre restando una metal band. Al punto che decisero di co-produrre il primo album, che infatti usci in doppia versione come “La Mano Potente” (una self-distribution) e come “The Powerful Hand”, che invece fu stampato e distribuito da Scarlet Records in Europa/USA e da King Records per il Far East. Fu l’esordio dei Metatrone, credo la prima e al momento unica Christian power / prog metal band italiana ad avere una discografia ufficiale e una attività live in Italia e all’Estero, nonché ad avere avuto un sacerdote compositore, tastierista e growler in pianta stabile. Come immagino saprai, da diversi anni David ha lasciato l’ordine sacerdotale. Furono rilasciati vari comunicati al riguardo ovviamente, dopo una vicenda che ha visto l’ottusità di una parte dei vertici del clero locale non essere in grado di capire e promuovere quanto la sua figura di musicista metallaro divenuto sacerdote avrebbe potuto continuare a significare, dopo altri due album (Paradigma e Eucharismetal) e vari singoli e innumerevoli esibizioni dal vivo e partecipazioni in tv. Ma non importa, oggi i Metatrone esistono ancora e presto ne sentirete parlare nuovamente, quando uscirà il nuovo album tuttora in registrazione e mixing.
David: Beh Ghigas ha fatto un riassunto perfetto. La storia dei Metatrone è tutt’altro che finita come hai ben capito. D’altronde, non si può fuggire da se stessi, e nel comandamento di Cristo, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, c’è racchiuso tutto il senso della nostra storia e della mia in particolare. Io sono e resterò sempre un metallaro, un musicista, ora anche cantante oltreché tastierista, qui nei Nefesh Core.

4. Sia la copertina di “Getaway” che di “Lullaby” sono stupende e al tempo stesso inquietanti. Chi le ha realizzate e cosa vogliono rappresentare?
David: La cover di Getaway, è stata realizzata sulla scorta di una nostra idea, da Christian Wallin, mentre l’artwork di Lullaby, è opera di Mattia Stancioiu, che oltre ad essere il drummer spaventoso che tutti conosciamo, e un sound engineer sopraffino, si diletta anche con la computer grafica. L’artwork di Getaway, disegnato e realizzato con quest’aspetto “comic – like”, rappresenta una figura di spalle priva di testa che ipnotizza una donna con la fiamma di uno zippo e sta per portarla in un’altra dimensione. Sullo sfondo una città di provincia, un corvo sorvola la “stagnate” quotidianità di quelle vite come a ricordare che c’è altro oltre la solita routine. Ci sono sparsi qua e là un po’ tutti gli elementi del disco, racchiusi nelle varie canzoni. Volevamo mantenere un aria da album degli anni 80.
David: Lullaby ha invece un artwork in parte più diretto, in cui abbiamo cercato di reinterpretare l’immagine di questo mostro-ragno che si prende cura della sua preda. Tuttavia abbiamo voluto rendere più orrorifica la visione, per cui abbiamo messo una culla vuota e la presenza di un mostro dietro la tenda, cercando anche qui di ottenere quella impostazione generale “horror” tipicamente anni 80.

5. State suonando tanto dal vivo in questo periodo?
David: Si finalmente dopo tanta attesa abbiamo iniziato a suonare dal vivo e i feedback che abbiamo ricevuto sono ottimi. Dopo gli anni del lockdown e la faticosa ripresa della macchina organizzativa dei live, i Nefesh Core hanno potuto esprimersi dal vivo. E’ stato emozionante e appagante poter calcare nuova amente il palco, ora in queste veste di lead singer nel mio caso e in questo progetto, che è in parte diverso da quanto avevo finora suonato.
Ghigas: Anche per me è stato incredibile vedermi nella veste di bassista e in una band che suona un genere diverso dal classico power prog metal che i Metatrone hanno sempre espresso. Mi sono divertito un mondo e non vediamo l’ora di potervi annunciare altre date. D’altronde un musicista non può non suonare dal vivo. E’ davvero impossibile!

6. Dopo tanti anni alcuni di voi continuano ad avere forza, voglia e passione per la musica. Cosa vi dà ancora la spinta per andare avanti, nonostante un panorama musicale sempre più difficile e nel quale le band italiane ancora fanno più fatica di altre per affermarsi?
David: Siamo musicisti nel DNA, ci sentiamo dei profondi romantici. Diamo molta importanza ai sentimenti e all’impatto che gli eventi hanno sulla nostra anima e sul nostro essere persone. Ci sentiamo poeti moderni, custodi di forme espressive che resistono al passare dei millenni. Siamo amati dalla e amanti della musica. Essere noi stessi è questo a renderci unici. Le nostre canzoni rappresentano l’eredità spirituale che lasceremo a chi verrà dopo di noi. Siamo felici di questo e tanto ci basta a farci sentire artisti. Crediamo fortemente nel valore delle nostre canzoni, nelle storie che raccontiamo e pensiamo che “esserci” in mezzo a tante band valide sia importante. E’ una esigenza di vita oltreché artistica, per cui non credo sia pensabile uno scenario futuro in cui tutto questo ci sia! Hai detto bene: è la passione che mantiene tutto acceso. Il rock e il metal restano ancora oggi un baluardo di libertà, un grido di speranza a non abbattersi, a non accettare passivamente la vita, a resistere e ad essere felici, nonostante tutto. Se tutto questo ha un valore, un rocker, un metallaro non può fermarsi mai!

7. Pensate di apportare delle modifiche al vostro sound in futuro? Potete già anticiparci qualcosa?
Ghigas: Come detto prima, il sound in generale è cresciuto e si sta spingendo verso territori un po’ più duri, ma la radice dark della band è sempre viva e sta alla base di tutto. Le melodie oscure delle nostra canzoni è sempre vitale, fa parte del nostro songwriting come elemento fondante, che tra l’altro consente a David di esprimersi al meglio date le sue caratteristiche vocali.
Quindi non sono modifiche sostanziali, ma una evoluzione sonora naturale.

8. Con chi vi piacerebbe suonare o andare in tour?
David: E’ difficile rispondere a questa domanda. Sicuramente ci sono band alle quali siamo legati, ma molte sono artisticamente distanti dalla musica dei Nefesh Core. Sarebbe fantastico andare in tour con i Megadeth o i Dream Theater. Ghigas potrebbe dirti, “con gli Alice in Chains o i Linkin Park”. Oppure con i Toto… riusciresti ad immaginarlo? Come vedi si tratta di band eccezionali, non propriamente legate al dark o al gothic. Ma fanno parte dei nostri ascolti personali, del nostro background e suonare con loro beh sarebbe certamente galvanizzante.
Chi può dirlo…

9. Abbiamo finito, concludete come volete!
Ghigas: Grazie a te per questa bella intervista e per lo spazio che ci avete dedicato. Ringraziamo e salutiamo inoltre i vostri lettori e tutti coloro che ci supportano! Ci vediamo dal vivo. Alla prossima.
Stay dark!

Nefesh Core
David Brown (voce/tastiere)
Bob Brown (chitarra)
Andrea Marchese (batteria)
The Ghigas (basso)

A cura di Knife


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Il falso re di Massimo Junior D’auria

[…] Nessuno ha mai visto un re assiro piangere, e non succederà neanche oggi. Non posso transigere su questo. Io, figlio di Assurbanipal, il sovrano più grande che il mondo ricordi, io, Re dell’universo, Re dei Quattro Angoli del mondo, io, prescelto di Assur… ridotto a questo: capovillaggio di un insediamento di pastori. […]

Il falso re di Massimo Junior D’auria, edito dalla Delos Digital per la collana Fantasy Tales al numero 108, a cura di Monica Serra.

La storia è ambientata negli ultimi giorni del declino dell’Impero assiro, seguendo Assur-uballit II mentre affronta la caduta della sua civiltà. Ridotto a governare un villaggio di pastori, il protagonista è costretto a prendere decisioni moralmente ambigue per preservare quel poco che rimane del suo dominio. Tra rimorsi, rituali sacrificali e un rapporto enigmatico con il suo consigliere Rashad, la trama esplora il senso di colpa, la decadenza e la lotta contro un destino apparentemente ineluttabile. L’introduzione di un rituale per deviare la sventura scatena una pestilenza devastante, che funge da catalizzatore per l’inevitabile disfacimento personale e politico del protagonista.

D’Auria utilizza uno stile evocativo e ricco di introspezione. I dialoghi sono funzionali a svelare i conflitti interni del protagonista e il mondo narrativo viene dipinto con descrizioni vivide e un linguaggio che richiama il tono epico. Lo stile riflette un equilibrio tra narrazione storica e tensione emotiva, con una certa tendenza al lirismo. Tuttavia, alcune parti risultano ripetitive, con riflessioni che talvolta rallentano il ritmo. Sebbene la conclusione sia coerente con il tono generale, manca un qualcosa che avrebbe potuto rendere il tutto più performante.

Comunque, L’autore riesce a trasmettere con efficacia il senso di disfacimento e fatalismo che permea l’intera opera, offrendo una visione convincente della caduta di un grande impero, affrontando argomenti come la perdita, il tradimento degli ideali e la lotta contro il destino, rendendolo rilevante oltre il contesto storico.


L’AUTORE:

Massimo Junior D’Auria è nato a Napoli il 6 novembre 1989, è laureato in Lettere moderne alla Federico II e diplomato alla Scuola italiana di comics in sceneggiatura e storytelling. Ha scritto e pubblicato opere di narrativa e a fumetti con diverse realtà. Si è occupato anche della traduzione di alcune storie di personaggi iconici dei comics. Ha curato collane editoriali di genere (horror, noir e thriller) per piccoli editori. Attualmente si occupa di social media e servizi editoriali come libero professionista. Sui suoi profili social parla di libri e dà consigli ad autori e aspiranti tali. Cura per Delos Digital la collana Folclore Oscuro.

Il falso re
Autore: Massimo J. D’auria
Editore: Delos Digital
Collana: Fantasy Tales
Pagine: 53
ISBN: 9788825430646
Costo: ebook 1,99 €

A cura di Flavio Deri



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Gola profonda nera di Guido Zurli

Gola profonda nera (Italia, 1976)

Regia: Guido Zurli, Vito Bruschini e Mario Bianchi. Paese di Produzione: Italia, 1976. Durata: 91′. Genere: erotico. Interpreti: Ajita Wilson, Ronald Mardenbro, Patrizia Webley, Agnes Kalpagos, Attilio Dottesio, Johnny Deangelis, Ivano Staccioli, Gianni Adamo

Torna visibile un piccolo cult come Black Deep Throat di Albert Moore (1976), un film che inganna sin dal titolo e dal nome anglofono del regista. La pellicola non ha niente a che vedere con La vera gola profonda (Deep Throat) di Gerard Damiano (1972) con Linda Lovelace, Harry Reems e Dolly Sharp. Il film non è un sequel neppure apocrifo del celebre porno a base di ripetute fellatio, ma si approfitta di un titolo e di un’ammiccante copertina per promettere scene che nella pellicola non ci sono. Un altro inganno è sul nome del regista che non è americano ma si tratta del modesto Guido Zurli alla sua prima prova nel cinema erotico. Ne La vera gola profonda una geniale intuizione di Damiano inventa il personaggio di una donna con il clitoride in gola che raggiunge l’orgasmo praticando sesso orale. Damiano è un ottimo regista che mescola scene hard con parti ironiche, alterna sequenze di fellatio a missili in partenza, fuochi d’artificio e campane. Damiano porta nelle sale Gola profonda e rende fruibile il cinema porno a un pubblico normale che ne decreta il grande successo internazionale. Deep Throat si merita una lunga citazione pure da parte del Mereghetti che le assegna ben due stelle e lo definisce “una simpatica porcellonata, più divertente della maggior parte dei porno che si fanno oggi”.

Gola profonda nera sfrutta solo il titolo e il successo di Deep Throat, manon ha proprio niente a che vedere con quel film e neppure con i successivi tentativi di imitazione più o meno riusciti. Il solo motivo di interesse per un appassionato è costituito dal debutto italiano della transessuale Ajita Wilson, protagonista assoluta nei panni della disinibita giornalista Claudine. Gli altri interpreti sono: Ronaldo Mardenbro (Paul), Patrizia Webley (l’italiana Patrizia De Rossi) (Angelica), Agnes Kalpagos (Françoise), Giovanni De Angelis (si fa chiamare Johnny) e Ivano  Staccioli (José Depardieu). La regia, davvero poco ispirata, è di Guido Zurli, buon documentarista e valido sceneggiatore, ma come autore di film erotici lascia parecchio a desiderare. Il film è sceneggiato dal regista con la collaborazione di Vito Bruschini, la fotografia (molto scura) è di Alfredo Lupo, le musiche (monotone e insistenti) sono di Alberto Baldan Bembo, il montaggio (fiacco) è di Erminia Mariani. Produce Dick Randall per Spectacular Film e distribuisce Manta. La trama racconta le vicissitudini erotiche di Claudine, giovane giornalista di colore che lavora a un’inchiesta sull’attore José Depardieu, sospettato di organizzare festini a base di sesso e droga. Claudine scopre che le serate a luce rossa in casa Depardieu non sono solo un fatto di sesso, perché ci sono persone che muoiono e che vengono distrutte dalla droga. L’incontro con la giovanissima Maria rivela una triste realtà, quando il padre della ragazza mostra alla giornalista come quei farabutti hanno ridotto la figlia. Claudine diventa amica di Françoise, una donna dai gusti lesbici molto vicina a Depardieu, e grazie a lei penetra nel covo dove si svolgono gli incontri proibiti per scattare alcune foto che servono da prova. La giornalista però soffre di un grave problema psicologico: quando sente dentro sé una musica si trasforma in una ninfomane e si porta a letto il primo uomo che incontra. Claudine è stata vittima di un trauma infantile quando vide sua madre a letto con un uomo bianco che subito dopo provò a violentarla. La ragazza non venne stuprata solo perché uccise l’uomo (forse un amante fisso della madre) con un colpo di pistola. A un certo punto la giornalista subisce un ricatto ed entra in casa Depardieu dove viene legata, mascherata con un cappuccio nero e quindi inserita in un terribile gioco erotico. In un imprevisto finale vediamo il padrone di casa mentre apre una porta e libera qualcosa che terrorizza Claudine, ma non si comprende bene di cosa si tratta, forse è una belva feroce. Il film termina con il cappuccio che viene tolto dal volto di Claudine mentre la donna grida tutto il suo spavento e secondo me il film è sostanzialmente mozzo.

Gli esterni della pellicola sono girati a Parigi e vediamo interminabili panoramiche dei Campi Elisi, la Torre Eiffel, le fontane di Versailles, la place de l’Etoile e l’Arco di Trionfo, la Senna e i battelli, il quartiere di Pigalle e chi più ne ha più ne metta. L’ufficio del turismo parigino è forse tra gli sponsor della pellicola, insieme al solito J & B e l’acqua Ferrarelle che compaiono spesso come pubblicità indirette. I dialoghi sono impostati al limite del ridicolo, da pessimo fotoromanzo, e anche se gli attori vengono doppiati (Staccioli lo fa da solo) la recitazione è a livelli dilettanteschi. I luoghi comuni sul sesso la fanno da padrone e si cercano pure assurde spiegazioni psicologiche per le situazioni più impensate. Patrizia Webley contende la scena ad Ajita Wilson in alcune parti lesbiche ma pure lei non è una grande attrice ed è mal diretta nelle sequenze erotiche. Salverei solo Ivano Staccioli che è un cattivo abbastanza credibile, pure se recita battute di pessimo livello come: “I film che faccio sono la copia della mia vita”. Ajita Wilson si cala piuttosto goffamente in un personaggio che pare un plagio mal riuscito della Emanuelle interpretata da Laura Gemser e diretta molto bene da Joe D’Amato. Si spoglia molto e in maniera poco plastica, mostra un corpo abbondante ma poco sensuale, un seno al silicone e un sedere enorme, ma soprattutto si nota che è tutto finto. Ajita Wilson si mostra speso nuda quando la musica che sente la obbliga a soddisfare pulsioni erotiche irrefrenabili. Ci sono anche alcune parti lesbiche appena accennate, prima tra lei e Agnes Kalpagos (Françoise) e subito dopo con Patrizia Webley (l’amica Angelica). Non manca una masturbazione che lo spettatore intuisce appena perché si vede solo il volto eccitato dell’attrice e c’è anche una scena di violenza carnale tra Ajita e il suo capo. Qui la sceneggiatura raggiunge il culmine del ridicolo quando la giornalista si rifugia a casa dell’amica Angelica e dopo essersi lavata esclama: “Mi ci voleva proprio una bella doccia per rimettermi in sesto!”. Come se bastasse un bagno per far passare il trauma di una violenza carnale e come se fosse sufficiente far l’amore con una lesbica per dimenticare un sopruso maschile… Per finire citiamo un’interessante parte di cinema nel cinema con Ajita intenta a guardare una pellicola di kung-fu accanto a uno spettatore che ci prova e le tocca le lunghe gambe. Guido Zurli è un regista che non sa gestire il materiale erotico che si trova tra le mani e la giunonica transessuale Ajita Wilson naufraga nel mediocre livello di una pellicola da dimenticare.

Gola profonda nera è importante solo come cult al negativo, come trash senza limiti, inconsapevole della sua bruttezza, che si trascina stancamente per quasi un’ora e mezza. Ajita Wilson nasce come uomo e il suo vero nome è Gorge, ma la sua evidente omosessualità la porta presto a esibirsi come travestito nel distretto a luci rosse di New York. Subito dopo arriva il cambio di sesso e ha inizio la carriera nel cinema come Ajita Wilson. La maggior parte delle pellicole che interpreta sono hard-core, ma in Europa viene impiegata anche in alcuni soft-core di scarso livello e pure nella commedia erotica in parti di basso profilo. Ajita Wilson diventa una sorta di Emanuelle transessuale che si sforza di imitare Laura Gemser in una serie di pellicole sempre più spinte. Muore a Roma nel 1987, dopo undici anni di cinema non certo memorabile, a causa di un’emorragia cerebrale in seguito a un incidente stradale. Dopo la sua morte si diffonde la voce che la sua transessualità fosse solo una trovata pubblicitaria, ma basta guardare bene il corpo di Ajita per rendersi conto che si tratta di un uomo operato. Il pomo d’Adamo è molto evidente, il sedere e i fianchi sono troppo mascolini, i tratti del viso marcati e l’altezza fuori proporzione per una vera donna. Ajita Wilson può anche scatenare le fantasie erotiche di un uomo, ma resta solo una transessuale dal fisico slanciato, le lunghe gambe e un grande seno al silicone. Ajita rappresenta il primo caso di transessuale nel mondo del cinema, ma stanno per entrare in scena anche le italiane Eva Robins (Roberto Coatti) e Maurizia Paradiso.

Il DVD edito da Mosaico Media del 2006 è di pessima qualità visiva e presenta una pellicola con evidenti differenze di colorazione che a tratti vanno dal giallo opaco al rosso porpora. La masterizzazione in digitale non è certo perfetta. Per non parlare degli extra che sono addirittura inesistenti. Quattro scarne paginette informative su Ajita Wilson accompagnano un’edizione molto spartana di un film modesto.

Note: Il film doveva farlo Zurli, ma poiché era in ospedale per un’ulcera lo cominciò Vito Bruschini. Poi, dopo diversi problemi produttivi, alla fine Mario Bianchi disse a Zurli che era disposto a farlo lui. E così fu. Zurli in sostanza non fece quasi nulla… (Roberto Poppi)

A cura di Gordiano Lupi


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Nostra Signora del Martirio di Nicola Lombardi

La Redazione GHoST presenta Nostra Signora del Martirio, la nuova antologia horror edita da Weird Book. Dodici incubi che portano la firma di Nicola Lombardi con la cover visionaria di Giorgio Finamore e la prefazione di Claudio Vergnani.

Gli Angeli del Supplizio si immolano per evocare una sanguinaria, antichissima divinità. Un’impossibile intrusione sconvolge la registrazione di un talk-show televisivo. Un ragazzo vuole a tutti i costi sperimentare il demoniaco Rito della Necrogenesi. In un piccolo negozio di periferia si possono acquistare fantasmi. Disperati bisognosi di denaro si affidano a un altolocato circolo di cannibali…

Dodici racconti scritti da Nicola Lombardi, dodici incubi a occhi aperti per farci assaporare il morboso fascino dell’orrore, inchiodando il lettore fino all’ultima pagina…

SCHEDA TECNICA
Titolo: Nostra Signora del Martirio
Autore:  Nicola Lombardi
Editore: Weird Book
Collana: I narratori del buio
Genere: Antologia
Pagine: 188
Prezzo: 18,90 €
Formato: 15 x 22 cm
ISBN: 979-12-81603-22-6


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Esce Laguna Beach degli Heaven Or Las Vegas

LAGUNA BEACH è il quarto singolo della band Alternative Shoegaze padovana che anticipa il nuovo album previsto per Dicembre.

Laguna Beach è il quarto singolo degli Heaven Or Las Vegas, una delle giovani band venete accolte con maggiore entusiasmo dalla critica nazionale, grazie ad una esplosiva miscela di indie rockshoegaze uniti ad una spruzzata di emo-core, e anticipa il loro primo lavoro sulla lunga distanza, Lascio Fuori La Realtà, finalmente in arrivo il prossimo Dicembre. La cifra musicale della band è estremamente a fuoco: riff di chitarra esplosivi carichi di riverbero, un drumming essenziale quanto potente, linee di basso di matrice wave e la voce di Paolo Simioni affondata nel phaser che canta il quotidiano disagio della Generazione Z, tanto diverso quanto affine alle precedenti, forse insito nello stesso genere umano. In Laguna Beach gli Heaven Or Las Vegas gridano la loro insoddisfazione verso una profonda provincia che non dà ascolto alle opinioni non uniformate e limita le possibilità di espressione di chi naviga in direzione ostinata e contraria.
Laguna Beach esce per Dischi Soviet Studio ed è disponibile in tutti gli stores digitali.

Tra lunghe strade deserte percorse nel cuore della notte ed estetiche fantascientifiche, gli Heaven Or Las Vegas sono alla ricerca di una dimensione sonora in cui liberare i propri demoni. Influenze emoshoegaze dream pop immerse in scenari spaziali in stile David Lynch, questo è il mondo indie rock di Paolo Simioni (voce e chitarra), Piercarlo Michelin (chitarra), Alessandro Beghetto (basso) e Federico Reato (batteria).
La band, dopo il primo EP Cose che non ho mai vissuto uscito per Dischi Soviet Studio nel 2020, ha collezionato una fervida attività live nel territorio, riscuotendo discreti feedback positivi sia dal pubblico che dalla critica. Fedeli all’etichetta che li ha visti nascere, nel 2023 tornano in studio per registrare l’album d’esordio di prossima uscita.
Diretti, più aggressivi, con un piglio più rock ma senza perdere il suono dilatato del genere, ancora una volta gli Heaven Or Las Vegas esplorano l’eterno contrasto tra sogno e realtà, tra la mente umana e l’ineluttabile e infinita natura dell’Universo.

Laguna Beach è stata scritta dagli Heaven Or Las Vegas.
Registrata da Matteo Marenduzzo al Soviet Studio di Cittadella (PD), mixata da Pablo Gastaldello, masterizzata da Maurizio Baggio presso La Distilleria Della Musica di Bassano Del Grappa (VI).

Prodotta da Heaven Or Las Vegas e Matteo Marenduzzo.
La foto di copertina è stata scattata da Francesco Reffo.

HEAVEN OR LAS VEGASPaolo Simioni (voce, chitarre), Piercarlo Michelin (chitarra), Alessandro Beghetto (basso), Federico Reato (batteria).



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Horror Rurale di Christian Sartirana

Horror Rurale – Quattro incubi ruspanti, di Christian Sartirana

È il nome della raccolta di quattro storie ad opera di Sartirana e distribuite in formato audio da Vizi Editore.

Quest’ultima è una giovane realtà che dal 2019 si affaccia nel mondo dell’editoria digitale. Realizzano Audio documentari, Audiolibri e Audiodrammi originali oppure riproponendo grandi classici con l’ausilio di professionisti del settore.

Le storie di cui andrò a narrarvi sono state lette e interpretate da

Librinpillole e Elisa Giorgio. Dico interpretate non a caso, in quanto vi è una vera e propria messa in scena con tanto di musica ad hoc ed effetti sonori realizzati ad arte che vi permette di immergervi completamente all’interno della narrazione, portandovi un livello oltre la semplice esperienza.

Tutte le storie sono narrate in prima persona, divise in cinque capitoli, con il protagonista che si rivolge direttamente a un interlocutore, spiegando gli eventi che ha vissuto. Lo stile di Sartirana si caratterizza per un linguaggio crudo e tagliente, spesso venato di gergo locale, ma capace di virare verso un registro aulico e ricercato quando richiesto dalla narrazione o dall’atmosfera.

L’ambientazione è radicata nella campagna piemontese, elemento centrale di tutte le storie, che intrecciano i temi del folclore locale con quelli dell’orrore rurale. La natura, nella sua dimensione più aspra e incontaminata, è protagonista e al contempo antagonista, rappresentando una forza indomita e primordiale che sovrasta l’uomo e le sue costruzioni.

Una dicotomia che emerge è quella tra natura e cemento: da un lato, la ruralità con i suoi ritmi lenti, i misteri e i legami con un passato arcaico; dall’altro, la modernità urbana, vista con un certo scetticismo o addirittura con ostilità. Il male che serpeggia nelle storie sembra essere saldamente ancorato a un passato arretrato, mentre l’evoluzione della cultura umana appare come un elemento distante, quasi inefficace nel contrastarlo. Questa tensione sottolinea una visione in cui il progresso non cancella i demoni del passato, ma li nasconde o li trasforma, lasciandoli pronti a riaffiorare.

Adesso passiamo ai racconti:

Nella vigna della durata di 33,21 minuti è la storia di un campagnolo fermo ad una mentalità arcaica, si presenta subito con un racconto che già dai primi minuti ti fa percepire che saremo trascinati in un orrore folcloristico. Racconta la storia di questo ragazzo che si trova a passare vicino a questa vigna la cui famiglia gestore ha un passato alquanto strano. Già il nome La vigna dei masoero viene sottolineato dal narratore e l’abile voce narrante ci fa già percepire qualcosa. Vengono citati alcuni luoghi che tutt’oggi rappresentano leggende e miti locali.

Nella pancia della scrofa, della durata di 78,82 minuti, racconta la storia di un nonno che, durante una sessione di ricerca del tartufo in compagnia del nipote, inizia a narrargli una storia di paura. Si tratta della vicenda di Fulvio Mossi, il classico tipo di città che decide di trasferirsi a vivere in campagna. Un uomo strano, che sviluppa una particolare ossessione per il modo in cui trascorrere il tempo, e che finirà per incrociare il suo destino con una macabra leggenda locale.

Il nido della masca, della durata di 64,66 minuti inizia ricordandomi la Dichiarazione di Randolph Carter di HPL, ma con vibes decisamente più moderne. Incomincia con un interrogatorio da parte di uno psicologo al prigioniero su alcuni fatti avvenuti. Il protagonista ovviamente è il carcerato, che fa la sua confessione in cui viene sviluppato il mito della Masca; il termine che indica la strega del folclore piemontese. Il finale decisamente inaspettato.

Il Mostro, della durata di 81,59 minuti invece tratta la storia di un contadino che parla ad uno sfascia carrozze della sua storia tragica e collegata a questo trattore che, a suo dire, è posseduto da uno spirito maligno. In questo racconto invece ho avuto delle forti vibes Kingiane e fino all’ultimo mi ha tenuto attaccato e curioso di scoprire come sarebbe finita.

In conclusione il connubio tra buona scrittura, sapienza del narrare vocalmente e l’utilizzo di ottimi effetti possono, specie su racconti brevi, trascinare l’ascoltatore in un vortice di orrore vivido e intenso.

L’AUTORE:

Christian Sartirana è nato a Casale Monferrato, in Piemonte, nel 1983, ma è cresciuto nell’entroterra siciliano. Dopo aver lavorato a lungo come commerciante di libri antichi e restauratore, dal 2020 si dedica all’editoria a tempo pieno. Autore di narrativa, podcast e sceneggiature, nonché curatore ed editor specializzato in horror fiction, è una delle voci più apprezzate della corrente letteraria del Gotico piemontese.

Horror Rurale: 4 incubi ruspanti
Autore: Christian Sartirana
Editore: Vizi Editore
Minutaggio: 4 ore e 7 minuti
SKU: 9791255300052
Costo: 9,99  – Accessibile da Gplay o Audible

A cura di Flavio Deri




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Madame Web di S. J. Clarson

Madame Web (Usa, 2024)

Regia: S.J.Clarson. Soggetto: personaggi creati da Jim Shooter, Denny O’Neil, John Romita Jr., Stan Lee, Steve Ditko e Mike Zeck. Storia: Matt Sazama, Burk Sharpless e Kerem Sanga. Sceneggiatura: Matt Sazama, Burk Sharpless, Claire Parker, S. J. Clarkson. Produttore: Lorenzo di Bonaventura, Rafael Cuervo. Produttore esecutivo: S.J. Clarkson, Adam Merims, Claire Parker. Casa di produzione: Columbia Pictures, Di Bonaventura Pictures, Marvel Entertainment, TSG Entertainment. Distribuzione italiana: Eagle Pictures. Fotografia: Mauro Fiore. Montaggio: Leigh Folsom Boyd. Musiche: Jonah Söderqvist. Scenografia: Ethan Tobman. Costumi: Ngila Dickson. Paese di Produzione: Usa, 2024. Durata: 118′. Genere: azione, fantascienza, avventura e thriller. Interpreti: Dakota Johnson, Sydney Sweeney, Isabela Merced, Celeste O’Connor, Tahar Rahim, Mike Epps, Emma Roberts, Adam Scott, Zosia Mamet, Kerry Bishé, José María Yazpik, Josh Drennen.

L’ambizioso progetto dello Spider-Verse (l’universo cinematografico di film dedicati a personaggi delle saghe dell’Uomo-ragno) si impreziosisce di questa nuova gemma a seguito di altre opere tra le quali Venom e Morbius.

Alla regia viene chiamata S.J.Clarson che non è alla sua prima opera, ma ha diretto perlopiù puntate singole di alcune serie (per quanto famose). Tutto questo non importa, poteva essere un cane incapace o un genio incredibile: avrebbe dovuto comunque dirigire Madame Web.

Il film narra le origini del personaggio dei fumetti del titolo in un modo peculiare per le opere del genere: da schifo.

Cassandra Webb è nata in Amazzonia da una madre tradita dal suo collega, tale Ezekiel, e trovatasi a ricevere assistenza da una tribù di indigeni dediti al culto del ragno. La giovane nasce quindi all’interno di un rito mistico che, lei non lo sa, le darà dei poteri di preveggenza.
Ma anche Ezekiel svilupperà dei poteri, prevedendo però solo la sua morte ad opera di Cassandra e altre ragazze con poteri ragneschi. Deciderà quindi di dare loro la caccia per ucciderle prima che avvenga il contrario. Ciò innescherà una serie di eventi a catena che porteranno Cassandra a riunirsi a tre ragazze sconosciute per combattere contro il loro nemico.

Scritto così è solo confusionario e poco accattivante, ma vi garantisco che è molto peggio. Madame Webb (come tutti i film del suo filone narrativo) è un prodotto che si crede di essere un blockbuster, ma si meriterebbe al massimo la Asylum. Non è un film brutto, è un film trash, così tanto da risultare pesantemente comico, ma decisamente non era il suo obbiettivo. Niente ha davvero senso né nella trama, né in diversi momenti della recitazione e neppure nel montaggio sonoro (c’è una scena particolarmente infame che ho rimandato indietro per vedere se mi ero perso un pezzo, tanto era scoordinata).

Perchè guardare questo film? Ci sono solo quattro motivi, secondo me:

    1. Siete ubriachi.
    2. Dakota Jhonson prova a recitare ed è graziosa mentre Sidney Sweeney è bellissima.
    3. Per ridere (il motivo migliore).
    4. Siete davvero ubriachi e forse quello è il meno.

Nonostante tutto io lo consiglio, perchè, visto con lo spirito giusto e con la giusta compagnia sono risate assicurate. Per tutto il resto è un prodotto che si merita l’oblio. Lo fa al punto che (come da tradizione) ha un minuto di scena dopo i titoli di coda, ma è talmente inutile che non riesco a ricordarla neanche se mi impegno.

Buona (ahah!) visione!

A cura di Marco Molendi



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La stanza buia di Leonard Cline

La stanza buia, pubblicato nel 1927 e celebrato da autori del calibro di H.P. Lovecraft e Clark Ashton Smith, è un’opera che si inscrive nel pantheon dei romanzi gotici e visionari del primo Novecento. Il suo fascino si sprigiona dalla perfetta sintesi tra la poetica decadente e una narrazione che oscilla tra il delirio sensoriale e il rigore scientifico della memoria. Leonard Cline, con questo romanzo, ha saputo esplorare un tema fondamentale della letteratura e della psiche umana: l’ossessione per la memoria e la folle corsa alla riconquista del tempo perduto.

Il protagonista Richard Pride, aristocratico settantenne rinchiuso nella decadente Mordance Hall, incarna l’archetipo del “byroniano” che tenta di sfidare i limiti dell’umano, addentrandosi nel territorio sconosciuto della memoria ancestrale. La sua convinzione che, attraverso la stimolazione sensoriale e musicale, sia possibile richiamare ogni attimo vissuto, lo trasforma in una sorta di Prometeo moderno, che cerca di rubare il fuoco dell’immortalità alla sua stessa mente. La scelta di situare la vicenda in una vecchia dimora dalle atmosfere gotiche, sulle rive del fiume Hudson, non è casuale: Mordance Hall diventa una metafora della mente stessa, un labirinto di ricordi, sensazioni e traumi, dove ogni angolo nasconde un enigma irrisolto.

L’incontro tra Pride e il giovane musicista Oscar Fitzalan è il punto di svolta del romanzo. Fitzalan, inizialmente coinvolto per aiutare Pride nella sua “ricerca scientifica”, si trova presto invischiato in un intrigo di passioni sotterranee e desideri proibiti. Cline è magistrale nel tratteggiare i rapporti ambigui tra Oscar, Janet e Miriam, facendo emergere una tensione costante che aleggia tra gli abitanti di Mordance Hall. Questa sottile rete di relazioni intrecciate, che mescola eros e potere, contribuisce a rendere il romanzo un’opera di grande intensità psicologica, dove ogni personaggio sembra riflettere un frammento dell’anima frammentata di Pride.

Un altro elemento che conferisce a La stanza buia un’aura profetica è la sua capacità di anticipare temi che solo il cinema degli anni ’70 avrebbe esplorato con film come Stati di allucinazione di Ken Russell, basato sul romanzo di Paddy Chayefsky. La manipolazione della mente, la ricerca della verità attraverso stati alterati di coscienza e l’ossessione per la memoria sono tutte tematiche che Cline tratta con un acume e una visione che lo rendono straordinariamente moderno. È facile comprendere perché critici come R.S. Hadji abbiano riconosciuto il romanzo come un’opera “ingiustamente trascurata”, e perché Neil Barron lo abbia definito “intrigante”, ponendolo in dialogo con le opere più audaci del tardo Novecento.

La prosa di Cline, talvolta definita turgida e oscura da critici come E.F. Bleiler, è in realtà una parte integrante del fascino del romanzo. Il suo stile ricercato, denso di immagini suggestive e simbolismi, amplifica l’effetto straniante della narrazione. Ogni descrizione di Mordance Hall, dei suoi inquietanti abitanti e delle misteriose ricerche di Pride, è intrisa di una sottile inquietudine che si insinua nel lettore, trascinandolo in un’atmosfera satura di angoscia e fascinazione. Scott Connors ha giustamente sottolineato come il “puro piacere dello stile” di Cline sia uno dei motivi principali per leggere questo romanzo.

La stanza buia è un’opera complessa e poliedrica, che sfida il lettore a confrontarsi con le zone più oscure della psiche e della memoria. Cline ci regala una discesa negli abissi della mente umana, un viaggio che, come quello di Richard Pride, si rivela tanto affascinante quanto pericoloso. Lungi dall’essere un semplice esercizio di stile, questo romanzo è un’avventura intellettuale e sensoriale, che ci spinge a riflettere sui limiti della nostra coscienza e sul desiderio irrefrenabile di riappropriarci del passato. È un peccato che il tempo lo abbia quasi dimenticato, ma per chiunque abbia il coraggio di affrontare la sua lettura, La stanza buia si rivela un’esperienza indimenticabile.

A cura di Cesare Buttaboni

La stanza buia
Autore: Leonard Cline
Traduzione: Lucio Besana
Editore: Arcoiris Edizioni
Collana: La
Biblioteca di Lovecraft
Pagine: 240
ISBN-13: ‎ 978-8899877880
Costo: Cartaceo 14,00€

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In libreria I grandi generali di Attilio Micheluzzi e Mino Milani

La raccolta delle storie a fumetti dedicate ad alcuni tra i più grandi generali della Storia, a firma di due colossi del Fumetto italiano.

Edizioni NPE porta in libreria il volume «I grandi generali».

La raccolta di cinque storie a fumetti, magistralmente disegnate da Attilio Micheluzzi e scritte Mino Milani, dedicate ad alcuni tra i più grandi generali della Storia: Patton, Zukov, Caio Giulio Cesare, Rommel e Montgomery.

Realizzate originariamente negli anni Settanta per il «Corriere dei Ragazzi», di cui Mino Milani era redattore, risultano straordinarie tanto per la narrazione documentata e puntuale quanto per l’attenzione verso il fattore umano. Notevole anche la presenza di schede tecniche di armi, divise e mappe.

Un’eccezionale operazione di divulgazione della Storia, a firma di due tra i maggiori autori di fumetto italiani.

Il volume si presenta in un’edizione cartonata di grande formato, tra storie a colori e in bianco e nero. E si aggiunge alla collana “Attilio Micheluzzi” di Edizioni NPE, giunta alla sua quattordicesima pubblicazione e in continua evoluzione. Il volume è disponibile in tutte le librerie.

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Piove di Paolo Strippoli

Piove (Italia, 2022)

Regia: Paolo Strippoli. Soggetto e Sceneggiatura: Paolo Strippoli, Jacopo Del Giudice, Gustavo Hernandez. Fotografia: Cristiano Di Nicola. Montaggio: Marco Spoletini. Musiche: Raf Keunen. Scenografia: Nello Giorgetti. Costumi: Nicoletta Taranta. Produttori: Mattia Oddone, Joseph Rouschop, Gabriele Pacitto, Jean-Yves Roubin, Isabella Orsini. Produttori Esecutivi: Maria Alessandra Marzotto, Annick Mahnert. Case di Produzione: Propaganda Italia, Gap Busters, MEDIA, Lazio Cinema International, Wallimage, Shelter Prod, Polifemo, Ministero della Cultura (MIC). Distribuzione (Italia): Fandango.  Lingua: Italiano. Paesi di Produzione: Belgio, Italia (2022). Durata: 95’. Genere: Horror. Interpreti: Fabrizio Rongione (Thomas), Cristiana Dell’Anna (Cristina), Francesco Gheghi (Enrico), Leon de la Vallée (Gianluca), Ondina Quadri (Alice), Orso Maria Guerrini (sig. Ferrini), Elena Di Cioccio (Marta), Nicolò Galasso (Giacomo), Federigo Ceci (Leonardo), Pietro Bontempo (padre di Giacomo), Aurora Menenti (Barbara).

Piove è un film horror italiano molto originale, che si fa perdonare alcuni piccoli difetti, perché la sceneggiatura di Jacopo Del Giudice è davvero ben scritta (vince il Premio Solinas), miscela soprannaturale e realismo in dosi adeguate, tenendo lo spettatore in tensione fino all’ultima sequenza. Vediamo in breve la trama. Siamo a Roma dove due operai del comune – padre e figlio – stanno riparando un guasto all’impianto fognario, il problema è che nella capitale (quando piove) dai tombini esce una sorta di fango grigiastro che emana un vapore denso e azzurrognolo. Va da sé che non si sa da dove provenga, ma chi entra in contatto con questo vapore diventa portatore di una rabbia repressa che sfoga sulle persone più care, mettendo in luce sentimenti reconditi e paure ancestrali. La prima terribile sequenza di morte vede una resa di conti tra padre e figlio. Non vado oltre con la trama, che va assaporata in presa diretta, un puro concentrato di orrore e tensione. Film vietato in un primo tempo ai minori di anni 18, poi derubricato ai minori di anni 14, soprattutto perché presenta soltanto personaggi negativi, anche se nel finale è l’amore che trionfa, portando un soffio di speranza. Fotografia (Di Nicola) cupa e spettrale di una Roma piovosa e notturna che si alterna a gelidi pomeriggi di sole, oltre a un’intensa colorazione rosso e verde per alcuni interni che profuma di Mario Bava; montaggio sincopato di Spoletini, davvero ricco di tensione narrativa, capace di contenere in 95’ la durata della pellicola; sceneggiatura oliata alla perfezione; musiche claustrofobiche e angoscianti di Keunen, introdotte da un suggestivo brano di Sergio Endrigo che scorre sui titoli di testa; scenografia curata a dovere da Giorgetti. La regia del (per me) sconosciuto Paolo Strippoli (autore di A Classic Horror Story disponibile su Netflix) è ottima, sia come direzione di attori che come tecnica di ripresa, molte le citazioni contenute nel film, dalle soggettive alla Mario Bava e Argento, per finire con brevi inquadrature di un volto femminile che ricorda Smile e l’atmosfera inquietante dell’intera pellicola che riporta a Macchie solari di Crispino. Interpreti molto preparati, dal protagonista Fabrizio Rongione al giovane Francesco Gheghi, senza dimenticare la diligente Cristiana Dell’Anna, infine una breve apparizione di Orso Maria Guerrini ed Elena Di Cioccio nei panni di Marta. Suono in presa diretta che troppo spesso penalizza la chiarezza del dialogo. Piove è un film di genere che dimostra la vitalità del cinema italiano quando viene fatto da autori che hanno inventiva, oltre a conoscere la miglior cinematografia del passato. Il messaggio contro la violenza diffusa nelle nostre periferie è palpabile, il regista punta l’indice anche contro certi programmi televisivi pomeridiani che sono capaci soltanto di fare audience mostrando orrore e violenza. Visto su Rai 4 in Prima TV. Reperibile su Rai Play. Da vedere, se amate il cinema horror e il thriller.

A cura di Gordiano Lupi




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