La redazione
GHoST segnala un libro davvero interessante edito da Shake Edizioni.
Robert Johnson. Crossroads – Il bues, il mito di Tom Graves
Da ragazzo,
Robert Johnson frequentava i bordelli per ascoltare i grandi maestri del blues come
Son House. Non gli ci volle molto per imbracciare una chitarra, ma le sue performance non erano apprezzate. “Faceva solo del gran casino” raccontava
Son House. Due anni dopo, quando
House riascoltò
Johnson suonare, rimase letteralmente a bocca aperta davanti a tanta maestria. Secondo la leggenda, per diventare così bravo in così poco tempo, aveva stretto un patto con il diavolo a un incrocio di strada. Poco dopo, quando morì per cause misteriose a soli 27 anni, qualcuno disse che il demonio era venuto a chiedere la sua anima come pagamento. E da allora continua a essere venerato come il più grande bluesman della storia.
Il libro più preciso e completo sulla figura di
Johnson. (Blues Bytes)
Chi conosce l’importanza di
Robert Johnson per la musica blues e rock amerà questo libro. (Blues Society of Tulsa)
Questo libro va alla ricerca non solo del mito ma anche della verità sulla sua vita, sulla sua arte e sulla sua morte. Una ricerca nel cuore dell’America e nel cuore di chiunque ami la “musica del diavolo”.
Come scrive
Tom Graves: “Per chi è stato adolescente nel 1956, quando
Elvis Presley sfornava i suoi primi clamorosi successi per l’etichetta RCA e turbava il pubblico americano agitando il bacino in televisione, quale poteva essere il genere musicale più interessante da ascoltare mentre si facevano i bagagli per lo studentato universitario e il rock&roll stava perdendo freschezza e mordente?
Elvis era in servizio militare,
Chuck Berry in galera per avere portato una prostituta oltre il confine di uno stato,
Jerry Lee Lewis era in esilio e suonava ai balli liceali di Memphis dopo avere impalmato la cugina tredicenne,
Little Richard aveva scoperto la religione e stava studiando per diventare reverendo e
Buddy Holly moriva in un incidente aereo. Lo stesso rock&roll sembrava morto e sepolto e, anche se i bianchi che ascoltavano il rhythm&blues erano sempre più numerosi, l’America rimaneva segregata sotto tanti aspetti musicali e culturali.
Per i ragazzi destinati al college, il rock&roll era diventato un po’ troppo simile a un “adolescenza istituzionale”, come l’ha definito un autore. Era diventato un prodotto sterilizzato, privato dei canini, per adolescenti, che raramente conteneva promesse che andassero oltre l’amore bamboccesco e il fare coppia fissa. Tanta gente stava cercando una dose più robusta di mondo reale nella musica che ascoltava, e di sicuro non la trovava nelle classifiche pop, in particolare se voleva qualcosa che avesse una qualche valenza sociale o in cui scavare in cerca di un significato culturale più profondo. Naturalmente la musica classica, l’opera lirica e in una certa misura il jazz potevano soddisfare queste esigenze musicali, ma se avessi cercato canzoni che fossero un pelino più vicine a te, qualcosa che uno studente “hip” potesse ritenere “cool”? E se fossi stato stufo marcio della musica sana?”
Graves poi ricorda: “La camminata a papera di
Chuck Berry lungo il palcoscenico o
Jerry Lee Lewis che dava letteralmente fuoco al pianoforte.” e fa presente che la nuova scena folk e impegnata, ancora non hippy, non aveva il mordente del rock'n roll originario.
“La protesta implicita in tanti pezzi folk non andava più di tanto contropelo al gusto dell’epoca, perché gli artisti dalla voce d’angelo sembravano così dannatamente carini rispetto a quegli urlatori rock&roll dai capelli unti e con gli occhi spiritati, che sembravano e si comportavano più da lavativi che da studenti con il massimo dei voti. Alcuni folksinger come
Bob Dylan inventarono una personale variante di talking blues in cui raccontavano una lunga storia in rima su una semplice progressione blues della chitarra acustica, inframmezzata da qualche acre commento al veleno sui problemi della società americana. Altri cantanti folk come
Peter, Paul and Mary e
Simon and Garfunkel innestarono invece le melodie e le sensibilità delle canzoncine pop nella tradizione folk creando un prodotto commerciale accettabile ai giovani quanto alle generazioni più mature.
Il successo di massa della musica folk costrinse molti duri e puri del folk a scavare più a fondo nelle viscere delle tante musiche popolari americane in cerca di una maggiore “autenticità”. Fu a questo punto che centinaia se non migliaia di universitari americani cominciarono a riscoprire alcuni degli originali bluesmen del Delta ancora in vita.”
“Nel 1959” scrive ancora
Tom Graves “uscì un libro intitolato semplicemente
Country Blues, scritto dal critico/musicista
Samuel Charters, che finalmente riusciva a riannodare in un tutto unico le storie del blues prebellico, del blues postbellico, del primo jazz, del rhythm&blues, degli spiritual, del gospel e della musica folk.
Ancor più importante fu l’album allegato al libro, contenente le incisioni di bluesmen dimenticati da tempo, tra cui un brano di
Robert Johnson,
Preaching Blues, la prima riedizione di un suo pezzo in vent’anni. L’esaustivo saggio di
Charters e il disco allegato hanno aperto la strada al revival del blues nel decennio successivo e puntato i riflettori sulla vita e sulle opere del misterioso
Robert Johnson.
Nel 1961 la Columbia Records, che possedeva i master e i supporti fonografici rimasti di tutte le incisioni di
Robert Johnson, decise di far uscire un LP contenente 16 brani selezionati intitolato
Robert Johnson: King of the Delta Blues Singers. È praticamente certo che sia grazie a
John Hammond che questo album è diventato realtà. Quale momento migliore del 1961 per riproporre al pubblico americano le canzoni da tempo dimenticate di uno dei più grandi e fantomatici cantanti country blues di tutti i tempi?”
Tom Graves nel suo libro ricorda come
Bob Dylan, uno dei più grandi cantautori viventi
, descrisse il suo primo ascolto di Robert Johnson:
“Sin dalla prima nota le vibrazioni che uscivano dall’altoparlante mi hanno fatto rizzare i capelli in testa. I suoni lancinanti della chitarra potevano quasi sfondare i vetri di una finestra. E quando Johnson ha cominciato a cantare sembrava uno che fosse spuntato dalla testa di Zeus già completo di armatura. Sono riuscito immediatamente a capire la differenza tra lui e tutti gli altri che avevo sentito. Non erano le solite canzoni blues, questi erano pezzi perfetti, ogni canzone era composta da quattro o cinque strofe, ogni distico intrecciato al successivo in una maniera inaspettata… Erano inafferrabili quanto a portata e argomento, brevi versi incisivi che formavano una storia panoramica, fuochi di umanità che eruttavano dalla superficie di quel pezzo di plastica rotante.”
Robert Johnson. Crossroads
Il blues, il mito
Tom Graves
ISBN 978-88-97109-10-5
Pagine 128
Euro 14,00
a cura di Luca Bonatesta